Forti emozioni, umanità, professionalità. Giuseppe Fiorello ci regala questo e ben altro nello spettacolo teatrale “Penso che un sogno così…”, scritto da lui assieme a Vittorio Moroni con la regia firmata da Giampiero Solari.
L’attore siciliano si cimenta in un monologo quale pièce che vede come fil rouge le canzoni del grande Domenico Modugno, interpretate profondamente ed impeccabilmente dallo stesso Giuseppe Fiorello, quasi da non riuscire a scindere la sua voce da quella del cantante pugliese, tanto è simile.
I racconti di vita familiare legati in particolar modo al padre di Fiorello si concretizzano sul palcoscenico proprio grazie alle canzoni di Mimmo, che sembrano scritte appositamente per lo spettacolo; spettacolo che va oltre al significato stesso della parola: tocca l’aspetto emotivo, il piacere di ricordare, di ripercorrere i momenti più significativi dell’infanzia.
Una scenografia essenziale, ma che riesce, grazie al suo effetto materico, a sottolineare ed enfatizzare l’amore per la terra; una terra ruvida, grezza, che non è altro che la metafora della nostra vita. In questo scenario Fiorello si racconta al pubblico; ultimo di quattro fratelli, da piccolo dimostra una certa timidezza, che però lo porta ad un incontro alquanto particolare ma determinante: un lupinaio, temuto da tutti gli abitanti del paese, un giorno gli chiede di aiutarlo, come ricompensa gli dà un disco: “Volare” di Modugno.
Da quel momento Mimmo non lascia mai più la vita dell’istrionico attore siciliano, tanto da portarlo ad interpretare il suo personaggio nella miniserie televisiva “Volare”, a fianco di Kasia Smutniak.
Fiorello cresce ascoltando il padre finanziere cantare; cantare spassionatamente, perfino a braccia aperte – proprio come faceva Modugno – mentre era alla guida della Opel beige, diretta verso la casa della nonna, dove la famiglia usava trascorrere le vacanze.
Accompagnato da due talentuosi chitarristi (Daniele Bonaviri e Fabrizio Palma), Giuseppe Fiorello canta alcuni dei più noti pezzi di Modugno, come “Meraviglioso”, “Lu minaturi”, “Resta cu’mme”, “La lontananza”, “U pisci spada”, “Ciao ciao bambina-Piove”, per concludere con “Vecchio frac”.
Questa pièce, pur ricordando Modugno, è differente dalla miniserie televisiva “Volare”. Com’è nata l’idea di fare questo spettacolo?
Da sempre ho avuto voglia di raccontare qualcosa che avesse a che fare soprattutto con mio padre, la mia vita, il mio paese, le mie origini, non perché fosse una storia speciale – è come molte altre storie di famiglie italiane – ma per omaggiare mio padre.
Mio padre è stato per me e per i miei fratelli un uomo straordinario, molto importante. Poi mi divertiva l’idea di raccontare la mia famiglia; questo processo psicologico che vivo ogni sera sul palcoscenico mi fa sempre ricordare da dove arrivo.
Quando ho iniziato la miniserie su Domenico Modugno, ho avuto la conferma che mio padre avesse a che fare con la storia di questo cantante, perché si somigliavano molto; mio padre cantava spesso le sue canzoni. Mi ha cresciuto con le musiche di Modugno. Quindi ho intrecciato questi destini.
Il fatto che poi io abbia interpretato nella finzione cinematografica Modugno, che mi riporta alla memoria mio padre, mi ha incuriosito, l’ho visto come un segno del destino.
Invece, com’è stato lavorare con Vittorio Moroni?
Con Vittorio Moroni è stato un discorso molto ampio, aperto e profondo: io gli portai un tappeto di emozioni e di ricordi della mia vita, che assieme abbiamo piano piano cucito e unito cronologicamente, esattamente com’erano accaduti, intrecciandoli a quella di Modugno.
Vittorio, oltre ad essere un amico caro, lo avevo conosciuto tempo prima, perché era lo sceneggiatore di “Terraferma” – un film di Emanuele Crialese. Probabilmente faremo ancora qualcos’altro insieme a teatro o al cinema. Lui è uno scrittore e un drammaturgo con il quale io riesco a confrontarmi bene e trovo in lui una luce. Riesce a cogliere le mie emozioni e a trasformarle poi in immagini.
In questo spettacolo emerge la sua voglia di comunicare alla gente qualcosa; perciò, secondo lei, oggigiorno quanto è importante la comunicazione effettiva, non quella dei social network, un po’ distaccata?
Sì, quella dei social network è un po’ sterile, non ha effetto. Alla fine il teatro è sempre il luogo di comunicazione più vero, più forte, più potente. Tu parli e il pubblico risponde; c’è un rapporto fisico con il pubblico, ci sentiamo, ci odoriamo, ci ascoltiamo. C’è tanto di quello che non accade in tutte le altre forme di comunicazione. È una forma di comunicazione umana molto arcaica, antica, stupenda. Penso che si dovrebbe, ancor di più di quanto si faccia adesso, tenere in considerazione questa nobile arte, che è la comunicazione teatrale.
E come si potrebbe invece cercare di recuperare questa comunicazione “tradizionale” anche al di fuori dal teatro?
Quello è un discorso un pochino più complesso, perché la tecnologia ha preso il sopravvento e quasi non lascia spazio ad una comunicazione più arcaica, quella fatta di parole. Si potrebbe recuperare portando i giovanissimi a teatro e far capire loro cos’è comunicare direttamente, e non solo sui social network che sono molto simpatici, ma sono anche molto sterili.
Ho notato che la tradizione orale del raccontare si è un po’ persa…
Si è persa da tutte le parti del pianeta, del mondo, sempre per quello che dicevamo prima: oggi i giovanissimi sono più attratti da una comunicazione fredda, fatta dai social network e cose simili.
La comunicazione orale va insegnata nelle famiglie. Io cerco di fare quello che posso con i miei figli, cerco di parlare con loro, di dire loro da dove arriviamo. Tempo fa mio figlio, il più piccolo, quello che ha dieci anni, fece una lunga chiacchierata con mia madre – lei ha visto la Seconda Guerra mondiale – facendosi raccontare l’esperienza da lei vissuta quand’era bambina. Mio figlio mi disse che provò un’emozione bellissima – glielo si leggeva negli occhi – nel sentire la nonna raccontare la sua vita, la sua storia.
Nel secondo dopoguerra c’era una voglia di rimettersi in gioco, di ricostruire l’Italia, soprattutto nei giovanissimi. Anche oggi viviamo momenti di crisi, ma sembra che i giovani non reagiscano a questa situazione.
Non penso che non reagiscano, credo invece che ci sia una reazione, non è ancora globale, però io la sento; sento una voglia di miglioramento. Il fatto è che i giovanissimi sono nati in questa crisi, quindi per loro è un percorso naturale.
Sono i poco meno giovani dei giovanissimi (i quarantenni) che sono in una via di mezzo, in una situazione un po’ più complessa, perché arrivavano dagli anni ’90 dove forse si stava un pochino meglio. Dopo è successo quello che è successo; ma i giovanissimi, i ragazzini di oggi, sono nati nella crisi e quindi sono già abituati a questo mondo. Ripeto, secondo me tutto parte dalla famiglia: è il nucleo familiare che può fare molto, che può migliorare la società.
Lei sceglie quasi sempre dei ruoli molto impegnati, delle storie profonde, forti. Come mai questa scelta?
Perché mi incuriosiscono queste storie, ed essendo molto curioso mi prendono per curiosità. Mi affascinano le storie di persone poco note.
Quindi dà voce a chi non l’ha avuta…
A chi non ne ha avuta abbastanza o chi ha avuto voce, ma non è emerso molto. L’ultimo lavoro che ho fatto (“Io non mi arrendo”, in onda il 15 e il 16 febbraio su Rai Uno n.d.r.) racconta la storia di Roberto Mancini, un poliziotto che per primo tra la fine degli anni ’80 e gli anni ’90 aveva capito e aveva scoperto il giro dei rifiuti tossici, di quella che oggi è la Terra dei Fuochi.
Lui all’epoca l’aveva capito prima degli altri, ma non era stato molto appoggiato dalle istituzioni che lo avevano un po’ lasciato solo. Ha fatto quel che poteva fare, poi si è ammalato e qualche anno fa è morto. Mi sembrava doveroso raccontare la storia di questo grande uomo che pochi conoscono.
Il film è stato girato in Puglia, ma è ambientato nella zona della Campania.
Com’è stato girare in quei posti, e come mai è stata scelta la Puglia?
Bello. Siamo andati in Puglia perché c’erano dei posti giusti dal punto di vista scenografico. In generale è stato un lavoro interessante. Ho scoperto cose riguardanti la Terra dei fuochi che pensavo di sapere, ma che invece non conoscevo: si pensa che la Terra dei fuochi sia un problema del sud, in realtà è un problema di tutti: esistono zone molto contaminate anche nell’estremo nord Italia. Ho capito questo e molto altro e ho conosciuto un personaggio e un uomo di Stato straordinario.
Se dico Sicilia che cosa le viene in mente?
Per prima cosa mi vengono in mente i miei amici; con loro sono cresciuto, ho maturato la mia vocazione, ho nutrito i miei sogni. I miei amici sono una parte fondamentale della mia esistenza. L’amicizia in generale lo è.
Ho abbastanza amici che mi sopportano, e io lo sento che mi sopportano, perché ho un caratteraccio (sorride), però mi vogliono bene. Senza di loro mi sentirei perso. Ho sempre bisogno degli amici, più di ogni altra cosa.
Per me la Sicilia è questo: i miei amici. Non c’è altra identità, altro segno di identificazione.
Sì, ci sono anche le mie esperienze, il mio passato, e da un punto di vista del territorio, c’è il mare, la terra. Ma quelle sono tutte cose scenografiche, la vera anima della mia Sicilia sono le persone, i miei amici.
Il piatto preferito che le faceva sua mamma?
Sono tanti i piatti preferiti. Mia mamma faceva soprattutto pesce, ma in particolare ricordo uno sformatino di alici…strepitoso! Come fosse una parmigiana di melanzane, ma fatto con le alici.
Qual è il punto in comune tra suo papà e Modugno?
L’aspetto fisico moltissimo, poi la caparbietà, la simpatia, l’energia, il carisma, e alcuni aneddoti che sembrano accomunarli in maniera particolare: ad esempio Modugno da ragazzino suonava sotto le finestre, faceva le serenate e mio padre faceva lo stesso. Per certi versi sembrano fratelli.
Immagino che lei l’aria degli anni ’50 l’abbia respirata a casa…
Sì sì, anche se non sono degli anni ’50 (ride). L’ho respirata attraverso mio padre, mia madre, i miei fratelli, che sono più grandi di me, attraverso la musica, le varie esperienze…
Su youtube c’è un video di Teatro 10 con Lelio Luttazzi e Domenico Modugno, l’ha visto?
Sì, qualche tempo fa. Se non ricordo male, avevano fatto una gag, cantando una serie di canzoni, ma cambiandone il tempo. Molto divertente!
Cosa si ricorda di Luttazzi, lo guardava?
No, ero troppo piccolo, ricordo solo qualcosina. Lui è stato un mito della televisione, della radio, mi viene in mente Hit Parade. È stato un grande precursore, un uomo di spettacolo di altissimo livello.
Quando si è avvicinato al teatro e al cinema?
Al teatro da ragazzino, quando facevo il cabaret, gli spettacolini in paese; poi ho fatto cose divertenti come cabarettista nei villaggi turistici. Il teatro di prosa è arrivato più tardi: ho iniziato prima con il cinema, negli anni ’90.
Ma c’è qualcuno che l’ha spinta verso il cinema?
Sì, c’è uno scrittore che più di tutti gli altri mi ha dato la possibilità di fare cinema: Niccolò Ammaniti. Lui mi ha fatto fare un film con Marco Risi e dal quel momento è nato tutto.
Com’è suo fratello Rosario Fiorello?
Simpatico, molto simpatico! È un chiacchierone, un artista puro.
Farete mai qualcosa assieme?
Non lo so…
Le piacerebbe?
Certo, ovviamente! Bisognerebbe chiederlo anche a lui, io sono pronto.
Questo spettacolo si chiama “Penso che un sogno così…”. Qual è il suo sogno che è passato e che non ritornerà mai più?
Questo. Ma tutti i sogni quando poi li realizzi non tornano più. È il tempo che passa a far allontanare i sogni realizzati, e quelli da realizzare sono avanti, sono il futuro.
Ringrazio Giuseppe Fiorello per la sua disponibilità e gentilezza.
Nadia Pastorcich @centoParole Magazine – riproduzione riservata
C’è poco da dire su questa intervista, scorrevole e piacevole. Il ricordo domina in essa ed è bello ricordare la nostra infanzia, la propria famiglia, piena di sani valori che possono instradare bene i giovani sul cammino della loro vita. Così come dice ed è successo per Beppe Fiorello. Il suo spettacolo un viaggio, un’autobiografia attraverso le canzoni dei Modugno, molto amato e cantato da suo padre.
Grazie Nadia, al solito molto pertinente nelle domande e brava!