Fabrizio Grosoli, giornalista, critico cinematografico, produttore, distributore, è stato co-direttore del Festival Internazionale RiminiCinema; membro del Comitato di Selezione della Mostra del Cinema di Venezia; co-responsabile della sezione Nuovi Territori (sempre nell’ambito della Mostra del Cinema di Venezia); selezionatore alla sezione DocItalia del Torino Film Festival; responsabile presso la società di produzione Fandango dell’area non-fiction; responsabile della sezione documentari in corso di Alpe Adria Cinema – Trieste Film Festival; direttore artistico del Bellaria Film Festival; membro del comitato di selezione del Festival Internazionale del Film di Roma.
Nel 2010 ha dato vita al primo Festival del Cinema documentario on-line ViaEmiliaDocFest. Mentre, a partire dal 2005 ha curato il concorso documentari per il Trieste Film Festival, di cui è divento poi co-direttore a partire dalla 24esima edizione del 2013.
Organizzatore di festival, giurato, giornalista, critico cinematografico. Quando è nata la sua passione per il cinema e quando si è avvicinato a questo mondo?
La mia passione per il cinema risale grossomodo agli anni – anni molto remoti (sorride) – in cui ho scelto di fare il DAMS a Bologna. All’epoca il DAMS era ancora un corso di laurea sperimentale, ed esisteva soltanto a Bologna. Io avevo un interesse vago e generico per il cinema; però ho avuto la fortuna di incontrare dei docenti che mi hanno stimolato a riflettere sul cinema.
Ho avuto poi anche la fortuna di poter cominciare subito, come critico, a scrivere di cinema: il gruppo che faceva riferimento al docente del DAMS, aveva da poco fondato una rivista che si chiamava “Cinema e Cinema”. Quindi ho cominciato a collaborare con loro e poi con “Cineforum” e altre testate.
A quel tempo al DAMS si faceva tanta pratica o tutto era solo a livello teorico?
Non si faceva nulla di pratica; ancora meno di quello che mi risulta si sia fatto in seguito (sorride). C’erano sostanzialmente due corsi di cinema: c’era storia del cinema con un professore che si chiamava Adelio Ferrero – purtroppo morì giovane, appena avevo iniziato a collaborare con lui – e poi con Antonio Costa; l’altro corso, invece, era di cinematografia documentaria. Ma entrambi erano decisamente di taglio teorico.
C’è qualche insegnate che le è rimasto a cuore?
Sì, tutti quelli con cui ho collaborato. Ferrero aveva un’impostazione molto militante, veniva dalla critica di sinistra, di Cinema Nuovo, e poi ha avuto le sue esperienze, ma era anche un uomo molto aperto; quindi i suoi corsi erano particolarmente stimolanti. Me ne ricordo due in particolare: uno era sulle avanguardie storiche e il cinema e l’altro sulla Nouvelle Vague francese. Entrambi i corsi sono stati per me determinanti.
Bisogna tener conto che c’era anche un altro aspetto fondamentale per noi: parliamo di un’epoca (sorride) – può sembrare incredibile – in cui le possibilità di vedere cinema c’erano soltanto attraverso la proiezione della pellicola; quindi non era così semplice vedere i film che ti interessavano. Al DAMS di Bologna, in quel periodo, organizzavano regolarmente delle proiezioni alla mattina riferite ai temi dei corsi, ma non soltanto. Tutto questo è stato fondamentale sia da un punto di vista formativo, che da quello di formazione di spettatore.
Le lezioni venivano fatte anche da insegnanti esterni, da personaggi importanti, o solo da insegnanti fissi?
In quel periodo capitava spesso che arrivassero delle “star”, non solo di cinema. Ricordo che erano venuti Baudrillard, Deleuze, Foucault, tutte persone importanti della cultura di quell’epoca; poi, al DAMS avevamo docenti come Umberto Eco, Furio Colombo. Per cui c’era già una dimensione multidisciplinare molto interessante.
Quando ha scoperto Trieste?
L’ho scoperta sempre negli anni di studente. Un’estate io e un mio amico che frequentavamo gli stessi corsi, avevamo avuto modo di accreditarci al Festival della Fantascienza, che all’epoca si faceva d’estate al Castello di San Giusto e alla Cappella Underground.
Avevo avuto l’occasione di conoscere alcuni personaggi legati al cinema, a Trieste, in particolar modo quelli della Cappella Underground. Sempre in epoca studentesca, quando andavamo al Festival di Venezia, ci capitava di incontrare molte persone; e quell’estate lì, venimmo anche Trieste. La città mi sembrò molto affascinante e fu una bella esperienza. Poi passarono molti anni prima che ebbi modo di tornarci grazie ad Annamaria Percavassi e al Trieste Film Festival.
Nel 2003 sono arrivato per la prima volta al Trieste Film Festival come ospite, come accreditato; l’anno successivo sono stato in giuria, e poi nel 2005 ho iniziato a collaborare.
Annamaria Percavassi è stata l’ideatrice del Trieste Film Festival, e lei ha avuto modo di lavorare con Annamaria in veste di direttore artistico.
Annamaria Percavassi è stata la direttrice artistica storica del Festival. È la persona che ha inventato il Festival e che poi l’ha sempre seguito in quanto direttrice artistica. Il mio percorso, invece, è stato questo: nel 2005 sono stato invitato a selezionare i film del concorso documentari, da me proposto. Questo l’ho fatto per alcuni anni fino al 2012; poi dal 2013 Annamaria mi ha chiesto di subentrare e di firmare la direzione artistica insieme a lei. Per cui questa è stata la mia quarta edizione.
Qual è l’obiettivo di questo festival?
Questo è un Festival che è nato grazie alla spinta intellettuale di una persona come Annamaria Percavassi, che aveva da subito intuito molto bene come un festival, radicato in questa città, dovesse essere per forza un festival che ragionasse sul ruolo che ha la cultura mitteleuropea qui a Trieste. Questa città, all’epoca, era una città di frontiera, molto più di adesso: stava vicina ai “muri”, al confine. E quindi il fatto che si facesse un festival che si chiamava Alpe Adria – faceva riferimento ad una comunità economico-culturale che esisteva all’epoca, e che comprendeva regioni di qua e di là dai muri – aveva un senso ben preciso.
Poi, grazie alla sua cultura e alla sua passione, Annamaria ha saputo far crescere questa cosa, fino a raggiungere i risultati che abbiamo visto in questi anni: il Festival è diventato effettivamente un punto di riferimento per un’area geografica culturale ben precisa.
Gli obiettivi possono essere tanti perché, per fortuna, un festival è una realtà dinamica, in continuo movimento, non è mai una cosa troppo fissa e uguale a se stessa. È anche vero, che sono cambiati i tempi e di conseguenza è cambiato anche l’approccio che c’è al cinema, rispetto a quello che c’era a quell’epoca. Ma uno degli obiettivi principali resta quello di formare un pubblico sensibile e appassionato, che in questa edizione ha dimostrato di esserci. In generale, il Festival è seguito con molta passione da tante persone.
Questo Festival è seguito molto anche dal pubblico dell’est?
Tradizionalmente c’è una presenza significativa da parte dei paesi vicini, cioè la Slovenia e la Croazia; ciò lo si nota dal fatto che quando facciamo film di quelle aree, c’è sempre molta gente.
Questa è un’evoluzione relativamente recente da un punto di vista di riferimento per la professione; il Festival sta diventando importante grazie all’iniziativa “When East Meets West” che porta a Trieste professionisti da tutta Europa. Quindi l’importanza del festival è di seguire queste due anime: quella “popolare” e quella professionale.
Il Trieste Film Festival è conosciuto abbastanza a livello nazionale o resta un po’ circoscritto?
Questo è un discorso un po’ delicato, legato a come sono strutturati i media. Credo, e ne sono convinto, che il Festival sia una realtà di livello sicuramente nazionale, e anche internazionale. Ma i riscontri li ho poi dalle persone che vengono qui. Per quanto riguarda la copertura dei media, è un problema molto più generale, di quello legato al nostro Festival.
Se parliamo dei mezzi più o meno tradizionali di informazioni, come la carta stampata o le informazioni che viaggiano quotidianamente su internet, c’è un atteggiamento un po’ pigro, standardizzato, rispetto a questo tipo di eventi e di manifestazioni.
Comunque, fortunatamente, ci sono tanti siti di cinema che seguono con molta attenzione e intelligenza anche il nostro Festival. Ma è anche vero che un Festival come il nostro non è seguito come dovrebbe.
Ultimamente è molto in voga il docu-film (una sorta di ibrido tra film e documentario). Come mai secondo lei siamo arrivati a questo tipo di fenomeno?
Per tante ragioni. Faccio questa premessa: ho sempre considerato il documentario un docu-film. L’idea di creare il concorso documentari veniva dal fatto che ho potuto osservare in giro per il mondo film documentari che, pur volendo raccontare il reale, lo facevano attraverso una costruzione narrativa ben precisa.
Le ragioni per cui questo fenomeno sia diventato così importante negli anni Duemila, da un lato sono legate a una questione tecnologica di questi tempi: i cineasti hanno cominciato a fare un cinema sempre più personale, a tal punto da diventare molto spesso un cinema individuale, perché i mezzi di ripresa e poi anche il montaggio ti permettevano di fare ciò; perciò questo tipo di narrazione quasi diaristica, ha avuto un boom eccezionale.
E dall’altro credo che si sia sentito il bisogno da parte di produttori, distributori e soprattutto cineasti indipendenti, di un cinema come mezzo di comunicazione, capace di raccontare il reale in modo più approfondito, ma anche stimolante rispetto ad altri mezzi. Questo passaggio non è stato così veloce, così immediato; hanno contribuito soprattutto i grandi festival a mostrare anche al pubblico che il cinema documentario, il film documentario, aveva una possibilità di interessare quanto e più della fiction.
Lei è l’ideatore del festival del documentario “ViaEmiliaDocFest” (Festival del Cinema documentario on-line)
Sì, e l’anno scorso ne ho fatto uno anche a Milano, che si chiama “Visioni dal Mondo”…
Cosa le colpisce del documentario?
Secondo me il cinema documentario è la forma di espressione contemporanea più interessante dal punto di vista della libertà: gli autori del documentario sono in qualche modo costretti a sperimentare il proprio linguaggio, il proprio approccio alla materia che vogliono raccontare, perché devono sapersi adeguare, devono riflettere su quello che rappresentano; mentre il cinema di finzione è legato a degli schemi molto precisi, che hanno un po’ impoverito la creatività a livello internazionale – basti pensare al cinema americano, che propone sempre gli stessi modelli.
Con il cinema documentario c’è la possibilità di costruire delle storie appassionanti e nello stesso tempo vengono sentite necessarie da chi le racconta. Credo quindi che ci sia una certa consonanza tre le aspettative di un pubblico che ha sempre più voglia di racconti nuovi, raccontati in modo nuovo, e una generazione di cineasti che si muove in modo totalmente indipendente, e che quindi riesce a fare questo salto, questo passaggio. Ciò non significa che tutto quello che si produce sia interessante.
Si producono troppe cose, ci sono troppi film che vengono fatti e quindi bisogna anche porsi tutta una serie di questioni legate al cinema documentario. Però mediamente trovo molti più film documentari interessanti che film di finzione. Inoltre credo che ci sia molto talento impegnato nel documentario, e progressivamente una sempre meno dimensione amatoriale-dilettantistica.
È facile pensare al film documentario come a una cosa fatta da un cineasta, che non ha nessun tipo di struttura; invece, adesso, anche in Italia, dove scontiamo un gap rispetto agli altri paesi europei, ci si sta cercando di adeguare, costruendo i documentari come delle produzioni serie e complesse, così come devono essere.
È soddisfatto di questa 27esima edizione del Trieste Film Festival?
Da molti punti di vista sì, perché ho avuto delle reazioni interessanti da parte del pubblico dei professionisti, che ha risposto bene. Abbiamo lavorato con un nuovo ufficio stampa e quindi abbiamo avuto anche dei riscontri maggiori rispetto al passato. Poi, naturalmente, ci sono sempre tante cose da migliorare (sorride).
Cosa vedremo il prossimo anno, qualche anticipazione?
Non lo posso dire (ride)…Abbiamo appena fatto una riunione, la prima dalla chiusura del Festival, dove abbiamo iniziato a ragionare su alcuni temi. Vorremmo proseguire con l’idea di dedicare un focus ad un’area geografica tra quelle legate a Trieste; e vorremmo anche ragionare di più sul cinema italiano, in collaborazione con degli amici che sono venuti a proporci delle iniziative. In più ho in mente di fare un omaggio a un cineasta che è venuto quest’anno, che è Vitalij Manskij, regista di “Under The Sun” (vincitore del Premio Alpe Adria Cinema 2016, nella sezione dedicata al documentario n.d.r). Lui, a mio avviso, è un grandissimo cineasta russo che ha avuto dei momenti importanti a partire dagli anni Novanta. Poi ci saranno tante altre cose.
Ringrazio Fabrizio Grosoli per la sua disponibilità.
Nadia Pastorcich ©centoParole Magazine – riproduzione riservata.
[foto di Elena Tubaro, Trieste Film Festival edizione 2015]