Il maestoso Castello di Miramare, edificato su progetto dell’architetto Carl Junker a partire dal 1° marzo 1860, è sicuramente il palazzo storico più rappresentativo nell’ambito della città di Trieste. Deve la sua fama ad un affascinante arciduca, morto all’età di trentaquattro anni, sincero ammiratore della natura e delle arti: Ferdinando Massimiliano d’Asburgo-Lorena (Vienna, 6 luglio 1832 – Santiago de Querétaro, 19 giugno 1867). Amatissimo governatore del Lombardo-Veneto tra il 1857 e il 1859, si sarebbe dimostrato degno anche della stima manifestatagli dalla popolazione triestina.
Figlio secondogenito dell’arciduca Francesco Carlo d’Asburgo (1802 – 1878) e della consorte Sofia di Baviera (1805 – 1872), era il fratello minore del celebre Francesco Giuseppe (1830 – 1916) incoronato imperatore all’età di diciott’anni nel corso della cerimonia tenutasi il 2 dicembre 1848 a Olmutz. Il terzogenito Carlo Ludovico (1833 – 1896) sarebbe invece divenuto padre dello sfortunato arciduca Francesco Ferdinando (1863-1914), assassinato insieme alla moglie nel corso dell’attentato di Sarajevo; la quartogenita e malaticcia arciduchessa Maria Anna (1835-1840), quasi dimenticata dalla storia, moriva invece alla tenera età di cinque anni gettando la famiglia nel più grande dispiacere: il piccolo Massimiliano, sconvolto dal vedere per la prima volta le lacrime della madre, avrebbe speso tutto il mensile acquistando una scimmietta e donandola a Sofia comunicandole con affetto “Non posso comprarti un’altra bambina, ma almeno una scimmietta sì”; l’ultimo e forse più problematico Ludovico Vittorio (1842-1919), omosessuale dichiarato, sarebbe infine stato la causa di molte preoccupazioni da parte del fratello Francesco Giuseppe, in seguito ad uno sfortunato episodio avvenuto nel 1864 in cui veniva sorpreso nel contesto di un bagno pubblico viennese mentre “intratteneva” un ragazzo minorenne.
Era questo l’ambiente famigliare in cui il giovane Maxi (così come veniva chiamato dai suoi cari) era cresciuto: ombroso ma ambizioso al tempo stesso, secondo alcuni aspirava ad un potere più grande rispetto a quello che gli sarebbe stato concesso per diritto di nascita. Quasi profetico, poco meno di un mese prima della sua venuta al mondo (nella notte tra il 13 e il 14 giugno 1832) un fulmine aveva colpito l’aquila bicipite simbolo degli Asburgo presente sulla sommità del palazzo di Schönbrunn, facendone precipitare una delle due teste. Massimiliano parlava correttamente otto lingue, amava leggere e venerava la poesia.
Un contemporaneo (anonimo) avrebbe in seguito formulato la seguente descrizione relativa all’arciduca, a perpetua testimonianza della sua personalità mite e raffinata: “Massimiliano aveva una bella presenza. Esso era di alta taglia, aveva occhi celesti pieni di bontà. La sua capigliatura era bionda, ma poco abbondante. Egli aveva adottato una moda di pettinatura del tutto particolare la quale accresceva la dolcezza della sua fisionomia; lasciando crescere moltissimo i suoi capelli, li divideva nel mezzo in modo di coprire pressappoco la sua precoce calvizie. La sua bocca era grande. Il suo labbro inferiore, un po’ grosso e cadente, dava qualche volta alla sua fisionomia un’aria scipita che non gli era appropriata, ma come diceva esso medesimo era un veritiero segno della razza, il segno distintivo degli Asburgo. La sua toilette, sempre semplice, era senza ricerca. Però egli metteva qualche volta una vera civetteria a leccare, per così dire, la sua barba, di cui aveva una cura particolare. Egli non poteva mai parlare con qualcuno senza tirare i suoi lunghi favoriti e arrotolarli con compiacenza con l’indice. Abituato a passeggiare sui ponti delle navi, esso sopportava a malapena l’immobilità. Dava le sue udienze particolari nel suo giardino o nel suo salone e conversava passeggiando. Sebbene amasse la solitudine, Massimiliano era di un carattere allegro. Ascoltava volentieri le piacevoli storie e non disdegnava di raccontare quelle che aveva raccolte durante i suoi lunghi viaggi. Di un carattere affabile, benefico, egli piaceva a tutti quelli che l’avvicinavano. Il suo accesso, del resto, era dei più facili; egli ascoltava con pazienza tutti quelli che gli parlavano e trovava sempre una parola amabile per tutti. Dotato di rara finezza e di un tatto squisito, egli aveva soprattutto una caponaggine straordinaria e ciò che sembra scusare questo, era una grandissima debolezza di carattere”. Quanta differenza rispetto al fratello maggiore, che considerava la gloria alla stregua di un accessorio: dedito al lavoro e poco interessato a passatempi come la lettura, Francesco Giuseppe si preparava al ruolo che il destino gli aveva affidato. Addestrato al suo compito anche dal punto di vista militare, all’età di cinque anni (in occasione del Natale) avrebbe ricevuto in regalo un’uniforme da colonnello: lo sventurato e più giovane Massimiliano nella stessa occasione otteneva invece un costume da Arlecchino. Riferendosi al periodo contraddistinto dai primi anni di regno del fratello, Massimiliano avrebbe anche scritto una serie di “memorie”. La madre si sarebbe comportata in modo differente nei confronti dei due figli più grandi: sosteneva e quasi venerava Francesco Giuseppe, ma allo stesso tempo amava e accudiva il secondogenito (che sentiva l’esigenza di rendersi indipendente dal fratello maggiore). Nel 1849 Massimiliano si faceva costruire uno chalet nel parco di Schönbrunn (battezzato “Maxing”, lo si può ancora osservare nell’ambito di un dipinto conservato presso la “sala di conservazione” del castello di Miramare): una piccolo capriccio, finalizzato alla sua volontà di uscire dalla vita di corte per poter approfondire il contatto con la natura. Il medesimo scopo l’avrebbe poi guidato anche nel corso della progettazione del parco di Miramare.
Quasi cinquant’anni dopo (1895), quando ventotto ne erano ormai passati dalla prematura morte di Massimiliano, un altro spirito libero tra i membri della famiglia faceva edificare un piccolo rifugio all’interno del medesimo parco: l’imperatrice Elisabetta d’Austria (1837 – 1898), cugina e cognata di Massimiliano, passata alla storia con il vezzeggiativo soprannome di “Sissi” (oppure “Sisi”; secondo la tesi sviluppata da Paul Heinemann, i vari fraintendimenti derivavano da un errore di Francesco Giuseppe che avrebbe male interpretato la firma della fidanzata: andava in realtà letta come “Lisi”). La fattoria, fatta ricavare da un edificio rustico presente nell’area detta “dei fagiani”, era finalizzata all’allevamento di alcune mucche che fornivano latte intero e derivati per il fabbisogno della corte imperiale. Elisabetta si era fatta riservare alcune stanze all’interno del fabbricato: una sala da pranzo, un’anticamera e una stanza per i servizi. Il salottino, arredato secondo lo stile rustico ungherese, era caratterizzato da una mobilia in legno tenero rivestito di rosso che ben si sposava con i servizi da pranzo e da tè in maiolica provenienti dall’Ungheria.
La stessa Elisabetta, decenni prima, sempre nei giardini di Schönbrunn aveva fatto costruire anche una piccola baita di legno per i giochi dei figli Gisella (1856 – 1932) e Rodolfo (1858 – 1889). Il giovane erede al trono d’Austria, suicida con l’amante Maria Vetsere presso il padiglione di caccia della località di Mayerling, aveva occupato il posto in linea di successione che fino a quel momento era stato di Massimiliano (dalla sera dell’incoronazione del fratello, in sostituzione del padre Francesco Carlo, imperatore per poche ore prima dell’abdicazione in favore del figlio). Rodolfo aveva mostrato segni di squilibrio mentale già nel corso dell’infanzia: in età adulta, era divenuto amico di molti tra i giornalisti appartenenti alla categoria della stampa d’opposizione, scrivendo a sua volta (con lo pseudonimo di Julius Felix). Privo di qualsiasi limite, predicava affinché il paese potesse godere di una maggiore democrazia, non risparmiando critiche al governo amministrato dal suo stesso padre. Come un toccante addio, l’ultimo gesto di affetto del principe ereditario nei confronti della madre sarebbe stato il dono di undici testi autografi di Heine (autore di cui Sissi era profonda conoscitrice), in occasione del Natale e quasi un mese prima del suo suicidio. Con il figlio, moriva spiritualmente anche Elisabetta: avrebbe portato il lutto fino al suo decesso, finendo per essere descritta da un ungherese (1896) con il termine “Mater dolorosa”. Non era la prima volta che l’imperatrice sopravviveva al decesso di un figlio: all’età di vent’anni aveva dovuto dire addio anche alla sua primogenita, la piccola Sofia (1855-1857). Elisabetta avrebbe cercato la causa di quella morte bianca nell’incompetenza del dottor Seeburger, arrivando a tentare di farlo bandire dalla corte: non vi sarebbe riuscita, perché il medico godeva in particolare della protezione dell’arciduchessa Sofia, una suocera che non si era mai fatta troppi problemi nel privare la giovane nuora dell’affetto dei suoi figli più grandi (Maria Valeria, la più piccola tra gli eredi della coppia, sarebbe stata infatti l’unica ad essere cresciuta sotto il controllo costante della madre). Ancor prima che questo prematuro lutto avesse colpito la famiglia imperiale, l’arciduca Massimiliano trascorreva parte del suo tempo libero componendo poemi ricchi di malinconia e dolore che ricordavano molto da vicino quelli del già citato Heine. Un comportamento sconveniente, quello del giovane Maxi, all’interno di una corte che disprezzava apertamente (ma soprattutto ignorava) intellettuali e artisti. L’unico favore lo avrebbe trovato proprio nella cognata Elisabetta, come lui amante della poesia e incupita dalla medesima sensazione di trovarsi simile ad “un uccello in gabbia”: Massimiliano si sarebbe descritto come ferito ad un’ala e perciò impossibilitato ad alzarsi in volo mentre Sissi, qualche anno dopo, metaforicamente diveniva un gabbiano.
Vecchiaia: era questa l’accusa che pacatamente l’arciduca rivolgeva all’impero asburgico (“Gli stati invecchiati si ammalano dei propri ricordi” ma soprattutto “La rigidità non è forza”: queste erano le sue parole). Invaghito delle idee liberali che qualche anno dopo avrebbero compromesso anche la vita del nipote (insieme all’alcol, alla morfina e alle donne), avrebbe trovato terreno fertile solo con la già ricordata nomina a viceré del Lombardo-Veneto: tuttavia, pur essendosi dimostrato favorevole ad una minore influenza del governo austriaco su quel territorio (intendeva anzi creare una confederazione di stati italiani, già posti sotto il dominio imperiale, ma con la possibilità di essere dotati di una certa libertà amministrativa), sarebbe stato diffidato nel proseguire secondo quella linea dal fratello imperatore, che aborriva ogni forma di autonomia. Per meglio dire, Francesco Giuseppe si sarebbe inizialmente dimostrato propenso ad accettare le variazioni proposte da Massimiliano: tuttavia, una volta sentiti consiglieri e ministri, avrebbe deciso di rifiutare la proposta. La nomina di Massimiliano per quel ruolo si era palesemente resa necessaria il 15 gennaio 1857 quando, in occasione della visita delle Maestà Imperiali a Milano, il malcontento della popolazione lombarda era emerso in particolare con il rifiuto dei patrizi di presentarsi a teatro in presenza di Francesco Giuseppe. Il feldmaresciallo Radetzky, all’epoca governatore di quelle terre, sarebbe apparso ai limiti della follia nella sua continua brama di repressione della popolazione locale: l’imperatore osservava come il viceré nel profondo dell’animo fosse “terribilmente cambiato e come ritornato bambino”. In realtà, a guardar bene, già da due anni l’arciduca Massimiliano stava accarezzando alcuni progetti personali: il primo fra tutti, relativo a Trieste, era emerso in circostanze quantomeno curiose.
Per essere compresa meglio, questa storia meriterebbe in realtà un breve prologo, relativo all’ancora giovane arciduca “soffocato” dal cerimoniale di corte: l’avevamo lasciato mentre finalmente trovava rifugio nel “Maxing” (1849). Durante l’autunno dell’anno successivo, insieme al fratello Carlo Ludovico e con il permesso dei genitori, avrebbe intrapreso un lungo viaggio facendo tappa in Grecia, Turchia e Dalmazia. Finalmente, quei luoghi tanto ammirati sulle stampe parevano prendere vita: Massimiliano ne avrebbe ricavato anche un libro, “Il mio primo viaggio” (“Mein erster Ausflug”). Questa prima pubblicazione faceva parte di una serie di undici volumi, editi dalla tipografia di corte di Vienna per dieci anni a partire dal 1854 (sei volumi sui viaggi, quattro sulle poesie e uno sugli aforismi – il titolo della raccolta era “Aus meinem Leben, Reisckizzen, Aphorismen und Gedichte”). Tre tele esposte presso la Sala da Pranzo (o “Sala dei Gabbiani”) del castello di Miramare avrebbero testimoniato la presenza del pittore Johann Nepomuk Geiger al seguito dei due arciduchi nel corso della visita effettuata presso la località di Smirne. Veniva così alimentata la passione del giovane Massimiliano per il mare, tanto da portarlo ad arruolarsi nella marina austriaca (26 ottobre 1850). La sua carriera sarebbe proseguita molto velocemente: a diciott’anni veniva nominato tenente e a ventuno capitano di corvetta. Stipulando un contratto d’affitto (1852) per una villa sul colle di San Vito, allora proprietà di Nicolò Marco Lazzarovich, trovava finalmente un’occasione concreta per risiedere nell’ambito della splendida città di Trieste, da lui esplorata già nel corso del viaggio effettuato in compagnia del fratello. L’arciduca si sarebbe ispirato proprio a quel primo viaggio, facendo ricavare anche una sala “moresca” nell’ambito di quell’abitazione. Successivamente, Francesco Giuseppe lo avrebbe proclamato contrammiraglio della flotta e comandante supremo in Trieste della marina austriaca (10 settembre 1854).
Appena qualche mese dopo, nel corso di un’escursione in mare effettuata durante una fredda giornata di primavera, delle tremende raffiche di bora avrebbero convinto l’arciduca a fare uno sbarco di fortuna presso la baia di Grignano. Da quel momento (1855) quel picco avrebbe mutato nome: veniva infatti ribattezzato con il termine spagnolo di “Miramar” (italianizzato frequentemente nell’espressione “Miramare” dallo stesso arciduca). Dopo aver provveduto all’acquisto di buona parte del comprensorio, Massimiliano avrebbe incaricato l’architetto Carl Junker della realizzazione di un progetto in acquerello utile alla pianificazione della residenza. Le prime proposte mostravano una struttura relativamente bassa (simile a quella di una villa) composta da un piano terra caratterizzato da arcate a tutto tondo sormontate da una loggia aperta. Sarebbero rimaste costanti fino alla versione definitiva la torretta e le merlature del tetto. Non soddisfatto dell’impressione avuta da questa prima proposta, Massimiliano avrebbe contattato anche l’ingegnere triestino Giovanni Berlam: il 18 febbraio 1856, quest’ultimo presentava il disegno in bianco e nero di un edificio simile a quello che era stato proposto inizialmente, ma di dimensioni notevolmente ridotte. Entro la fine dello stesso anno, l’arciduca ammirava un altro progetto realizzato dall’architetto Junker in collaborazione con Albert Rieger: la struttura questa volta somigliava volutamente a quella di un castello. Adattato alle forme della punta che caratterizzava il promontorio, quasi permetteva l’accesso del mare (attraverso le finestre) all’interno dell’appartamento arciducale. Finalmente l’idea di Massimiliano usciva dalla sua dimensione astratta: il maniero collocato all’interno del parco dimostrava la perfetta sintesi tra arte e natura.
Contemporaneamente, la vita di Massimiliano procedeva anche sul versante privato: il 3 novembre 1856 avrebbe inviato una prima lettera alla principessa belga Carlotta di Sassonia-Coburgo (Laeken, 7 giugno 1840 – Meise, 19 gennaio 1927), figlia di re Leopoldo I e della sua seconda moglie Luisa d’Orleans (conosciuta nel corso di una visita ufficiale a Bruxelles). L’arciduca esprimeva nei suoi scritti un’opinione sincera relativa alla futura sposa: “Lei è piccola, e va bene, lei è molto giudiziosa, e questo è piuttosto preoccupante”. I due giovani si fidanzavano ufficialmente meno di due mesi dopo (vigilia di Natale) e convolavano a giuste nozze il 27 luglio 1857, presso la cappella del palazzo reale di Bruxelles. La cerimonia si sarebbe svolta molto velocemente, priva di fronzoli e musica a causa di un contrattempo: al termine del rito, i neosposi venivano acclamati dalla folla mentre si affacciavano al balcone (dopo i festeggiamenti, il fratello di Carlotta annotava sul diario alcune osservazioni che in seguito si sarebbero rivelate profetiche: “Le persone superstiziose hanno notato che non ha piovuto, il boquet della sposa è caduto dalla cintura, la sua sedia si è rovesciata durante la messa”).
Carlotta (che per le nozze indossava una veste di raso bianco ricamata d’argento, un meraviglioso velo di fattura fiamminga e un diadema di brillanti adornato con fiori d’arancio) si sarebbe trovata in uno stato di forte tensione emotiva: probabilmente era troppo grande l’emozione derivata dall’idea di abbandonare la terra natia. Il dono di nozze di Leopoldo I, padre della sposa, sarebbero stati i magnifici cannoni successivamente collocati nell’ambito del parco di Miramare. Una volta conclusi i festeggiamenti, la cognata imperatrice Elisabetta non sarebbe rimasta più di tanto stupita quando le attenzioni della suocera Sofia si fossero palesemente orientate nei confronti della moglie di Massimiliano: bella e ambiziosa, Carlotta attirava su di sé l’interesse della corte. Veniva descritta con queste parole dalla madre del suo sposo: “Carlotta [è] seducente, bella, attraente, affettuosa e tenera nei miei riguardi. Ho l’impressione di averla sempre amata […]. Ringrazio profondamente Dio per aver dato a Max una compagna tanto incantevole e per la nuova figlia che ci ha accordato”.
Nasceva così la rivalità tra le due nuore, che presto sarebbe sfociata in reciproco disprezzo. Ciò che più infastidiva Carlotta era con ogni probabilità l’evidente complicità intellettuale che Elisabetta e Massimiliano continuavano a palesare. Tuttavia, Sissi sarebbe rimasta devastata da tali critiche: il suo equilibrio nervoso vacillava accompagnato da un costante dimagrimento. La goccia che avrebbe fatto traboccare il vaso si sarebbe presentata in occasione di un piccolo concorso di bellezza organizzato a Schönbrunn: nonostante il notevole fascino che caratterizzava i tratti di Elisabetta, in tale contesto veniva inaspettatamente premiata l’arciduchessa Carlotta.
L’orgoglio di Sissi avrebbe avuto modo di risanarsi solamente il 21 agosto 1858, quando l’enorme collare del Toson d’oro sarebbe stato deposto sulla culla del neonato erede imperiale, Rodolfo. Massimiliano e la moglie avevano trattenuto a stento lo sdegno procurato loro da questa nascita: Carlotta, in particolare, ne sarebbe rimasta profondamente amareggiata.
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Nadia Danelon © centoParole Magazine – riproduzione riservata