(ovvero: Harrison Ford, il terzo falegname più famoso del mondo dopo Mastro Geppetto e San Giuseppe)
Dice Sir Alec Guinnes in una lettera scritta nel 1977 all’amica Anne Kaufmann dal set di “Star Wars“: “…Tennyson (non dev’essere giusto) Ford – Ellision (? – No!) bè un giovane slanciato e languido che probabilmente è intelligente e divertente …”
Il tono del grande interprete inglese è decisamente ironico e insofferente, coinvolto com’è in un film di cui detesta la sceneggiatura, in cui si sente trattato da vecchio rudere (“… mi trattano come se avessi novant’anni e me ne fanno sentire centosei!”), in cui si è fatto coinvolgere perché in bolletta, in cui insiste sull’idea della morte del suo personaggio per non dover più ripetere “battute dannatamente brutte e banali”. Eppure l’interprete di Obi Wan Kenobi è l’unico a ritenere che “Star Wars” – “Guerre Stellari” sarà un grande successo. L’intera troupe del film lavora distrattamente e senza credere minimamente nel progetto, sghignazza durante l’attività e opera svogliatamente, al punto di innervosire a tal punto George Lucas da causargli un attacco di cuore. Persino Harrison Ford, che, con questo film, vedrà una svolta epocale della sua carriera, dice al regista: “Puoi mettere questa merda nei copioni, George, ma sono sicuro che tu non riusciresti mai a parlare così”.
“Star Wars”, alla fine, a fronte del costo di 11 milioni di dollari e una distribuzione in tutti gli Stati Uniti inferiore a quella di Checco Zalone in Italia, ne incassa 200 il primo anno solo di botteghino ed Harrison Ford si ritrova calato per sempre nel ruolo di uno dei personaggio più popolari di tutta la seria, Han Solo.
Non è il suo primo ruolo cinematografico, ma è il primo come protagonista. Ford è uno dei tanti giovani che in quell’epoca vanno a vivere in zona Hollywood cercando di sfondare come attore. Ottiene molti ruoli da comprimario se non addirittura da poco più che comparsa, anche in alcuni film fondamentali della storia del cinema, quali “La Conversazione”, di Coppola, e “Zabriskie Point”, di Antonioni. Ma fino a quel punto il lavoro come vero attore è poco e non lo soddisfa, tanto che dopo avere fatto un po’ di tutto (tra cui il cameraman e il ‘roadie‘ per i Doors nel 68) si improvvisa falegname e carpentiere negli Studios. Poi, nel 1973, il preambolo della svolta. Entra nel cast di “American Graffitti” con un ruolo di antagonista che gli vale l’attenzione del regista, appunto George Lucas, e del suo buon amico Steven Spielberg. È proprio Spielberg che insiste affinché il “giovanotto slanciato e languido” sia il volto di Han Solo.
Considerando che quello di Han Solo è il ruolo di protagonista in un film ‘low budget’ in cui non crede, in un genere che non apprezza quale la fantascienza, al nostro falegname va piuttosto bene a dispetto di una qualità, come attore, non proprio esaltante. Da li in poi, oltre a diventare indissolubilmente legato alla saga di “Star Wars” tanto da diventarne il simbolo nel recentissimo “Il risveglio della Forza” di J.J.Abrams, nel giro di 5 anni si ritrova a personificare altri due ruoli emblematici per l’idea cinematografica di avventura e fantascienza: Indiana Jones e il detective Rick Deckard di “Blade Runner“, a stretto giro di boa insieme a “L’impero colpisce ancora”.
Quella carriera che ha visto improvvisamente una svolta diventa straordinaria, un percorso solo in discesa.
Mette in fila film importanti (forse più al botteghino che agli occhi della critica) con registi di livello tra cui Roman Polanski. Guadagna tanto da diventare l’attore più ricco del mondo ma senza mai ottenere riconoscimenti per il suo lavoro. Una sola candidatura all’Oscar, e quando sale sul palco lo fa per ritirare il premio al posto di Roman Polanski stesso, su cui pende una condanna negli USA.
Harrison Ford non è un grande attore e deve il suo successo ad altro: forse alla simpatia, alla sua faccia da schiaffi, o magari a una notevole fortuna cinematografica in termini di opportunità. Basti pensare al fatto che fu l’insistenza di Steven Spielberg a garantirgli il ruolo prima di Han Solo e poi quello di Indiana Jones, ruolo che peraltro era stato offerto prima al Tom Selleck di “Magnum P.I.”, che probabilmente, per aver rifiutato, si sta ancora mangiando le mani.
C’è però un’altra considerazione da fare. Probabilmente Harrison Ford si è negato scientemente la possibilità di interpretare ruoli da protagonista in film di maggiore spessore, che gli avrebbero dato la possibilità di una consacrazione maggiore a livello recitativo, dato che, in termini di popolarità, non era secondo a nessuno.
Credo sia stata anche una questione di estrema consapevolezza di quanto potesse essere ingombrante un volto come il suo, così indissolubilmente legato ai personaggi che gli hanno dato un successo planetario.
Un esempio su tutti riguarda “Schindler’s List”. È abbastanza noto che Spielberg offrì a lui per primo il ruolo di Oskar Schindler ricoperto in seguito da Liam Neeson in un film poi ultracelebrato. Ford declinò gentilmente l’offerta (probabilmente con quel sorriso scanzonato che lo contraddistingue): disse che non voleva far pesare su un film importante come quello la figura di Han Solo e Indiana Jones. Sappiamo come è andata a finire. Neeson, scelto al suo posto per quel ruolo complesso ed importante, vinse l’Oscar. Ora, non so se Harrison Ford avrebbe potuto fare altrettanto, ma di sicuro se la sarebbe giocata bene.
Praticamente ogni personaggio che ha interpretato era imbarcato in un certo tipo di situazione avventurosa, nel senso più cinematografico del termine. Da “Frantic“, ad “Air Force One“, a “K19“, da “Witness” a “Il Fuggitivo” passando attraverso quello che è il suo preferito, “Mosquito Coast” e non disdegnando ruoli drammatici come quello di Tom O’Meara in “L’ombra del diavolo” al fianco di un’inedito (in quei panni) Brad Pitt. Credo che si tratti di una scelta consapevole e non di in uno stereotipo, una maschera specifica in cui si corra il rischio di rimanere impigliati come successe ad esempio a Tony Curtis, indimenticabile protagonista di una marea di commedie, ma ingiustamente etichettato come attore in grado solamente di recitare in ruoli brillanti, marchio che gli impedì di raggiungere l’Oscar per i pochi ruoli drammatici che gli sono stati concessi e in cui ha dato prova di essere un attore strepitoso, come ad esempio “La parete di fango”.
La carriera di Harrison Ford dà da pensare che abbia riflettuto seriamente su questo rischio in altre occasioni. Dopo avere inanellato praticamente in fila due “Indiana Jones” (ritornerà poi per un terzo e un quarto con Cate Blanchett), un “Guerre Stellari” e “Blade Runner”, si stacca per parecchio da ruoli in film fantastici e fantascientifici, rifiutando poi di interpretare immediatamente dopo il primo un altro Legal Thriller. A mio giudizio ha però sempre subìto non tanto il fascino di un personaggio né quello di uno specifico genere. Forse invece si è sempre fatto attrarre dal senso che ha nella narrazione la parola “avventura” – una buona dose di consapevolezza di dove si è e una marcata dose di autoironia.
Questi forse, alla fine, i motivi per cui Harrison Ford ha scelto con successo di diventare artisticamente, in qualche modo, la faccia dell’avventura. Più di qualunque attore o attrice, forse in un modo che non potrà essere superato.
E pensare che se Steven Spielberg non avesse insistito, oggi Harrison Ford sarebbe stato, forse, un apprezzatissimo falegname-carpentiere, come lo era nel periodo in cui stava quasi per mollare. Forse certi film universalmente amati non avrebbero avuto lo stesso successo e noi non vedremmo la sua faccia stampata lì, a prenderci in giro. La cicatrice sul mento quella si, la avrebbe ancora. Perché se l’era procurata banalmente in un leggero incidente d’auto mentre si infilava la cintura di sicurezza guidando. Non come molti hanno sostenuto a lungo, imparando a usare la frusta. E che questa ultima falsa versione sia molto più popolare è la dimostrazione che nel nostro immaginario di pubblico cinematografico, è molto più facile accostare a un viso qualcosa di avventuroso e bizzarro piuttosto che una ordinarietà da cui ci piace ogni tanto fuggire. Magari chiudendoci in una sala cinematografica.
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