Una serie televisiva britannica (Channel 4) posta fra il surreale, la suggestione e la fantascienza, di non grande diffusione ma di importante valore emotivo, ripropone un messaggio inquietante sul nostro prossimo futuro, fatto di libertà-prigioni, di immagini alterate e mediate da altri, e di (non) comunicazione. E forse – nel momento in cui notizie prive di certezza della fonte invadono moltissime pagine cosiddette ‘social‘, video costruiti solo per girare su Internet e per suscitare reazioni emotive violente appesantiscono i nostri telefonini, messaggi e slogan pubblicitari che non desideriamo ricevere diventano invece il rumore di fondo della nostra vita – forse questo messaggio non vorremmo sentirlo.
Molti fra quelli che leggono probabilmente non hanno visto “Black Mirror” – ‘specchio nero’, e c’è una forte possibilità che non lo vedano mai, considerate le politiche di distribuzione della serie (in Italia diffusa, solo in parte, su Sky Cinema 1) e avendo come premessa l’origine britannica – tradizione fatta di storie raccontate, e bene, non tanto alla massa del pubblico ma a chi vuole intendere, approfondire e capire. Vale senz’altro la pena di fare uno sforzo per cercarla e apprezzarla, questa serie, magari con i sottotitoli, in lingua originale: è possibile acquistarla sul Web, e a un prezzo assolutamente basso considerato il valore dell’opera.
Come suggerisce il titolo, lo scopo di “Black Mirror” è quello di farci vedere un riflesso scuro di noi stessi e di farci capire il punto in cui, come società, siamo – nel momento in cui la tecnologia e la comunicazione continuano, con accelerazione sempre più spinta, a modellare le nostre vite e a influenzare i nostri comportamenti. Lo ‘specchio’ in questione non è solo un’allegoria: potrebbe rappresentare perfettamente una delle molte superfici lisce e trasparenti attraverso le quali guardiamo ogni giorno – lo schermo di uno smartphone, o una televisione a schermo piatto. Superfici che ci rimandano contro un’immagine di noi, molto ‘social’, molto ‘virtual’ e straordinariamente attuale. Charlie Brooker, il suo creatore, ha spiegato proprio così al “Guardian” i temi di fondo che l’hanno ispirato:
“Se la tecnologia è una droga – e la si sente addosso proprio come una droga – allora quali, di preciso, sono i suoi effetti collaterali? Questo spazio situato fra piacere e disagio è quello dove “Black Mirror”, la mia nuova serie drammatica, è ambientata. Lo ‘specchio nero’ del titolo è quello che troveresti su tutte le pareti, su tutte le scrivanie, nel palmo di tutte le mani: il freddo, lucido schermo di una televisione, di un monitor, di uno smartphone.”
La serie è costituita da episodi scollegati, sei, andati in onda fra il 2011 e il 2013, e uno speciale natalizio nel 2014 in buona tradizione inglese Una terza stagione è in produzione e arriverà su Netflix. E alcuni di questi episodi – come il primo, “The National Anthem”, ambientato proprio in Inghilterra, non introducono nulla che non sia assolutamente già possibile oggi e non sembrano essere per nulla di fantascienza, ma sono, piuttosto puramente speculativi.
Sia che l’acquistiate sul Web o che vi capiti di vederne qualche spezzone su Sky fra un messaggio pubblicitario e l’altro – della prima serie fate attenzione a non perdere ‘15 Million Merits‘: è solo un’ora, o poco meno, ma è una delle più belle ed emotivamente coinvolgenti pagine di fantascienza mai scritte per la televisione.
L’episodio segue strettamente la vita di un’individuo – un uomo, di nome Bing, che, come quasi tutti gli appartenenti alla giovane ed energica forza lavoro di un mondo che ipotizziamo essere il nostro, in una non meglio precisata epoca di un luogo non specificato (e del quale non vediamo nulla se non l’interno di una costruzione che immaginiamo immensa), passa le sue giornate pedalando su una bicicletta da palestra e ricevendo immagini, suoni e informazioni da sorgenti multimediali, selezionandole in modo da poter guadagnare ‘meriti’ – dei crediti (una sorta di denaro) che permettono, a loro volta, di fare qualcosa d’altro, come mangiare, spegnere le luci, rilassarsi.
I compagni di bicicletta di Bing non sono tutti uguali: qualcuno è sgradevole, altri sono simpatici, c’è spazio persino per l’amore – quello vero. C’è un sistema di classi sociali, nel mondo di Bing, e le persone meno attraenti e fuori forma se ne vanno in giro vestite di giallo a fare le pulizie (alla fine della giornata, chi ha pedalato può rilassarsi con un giochino in 3D in stile ‘Duke Nukem‘, nel quale può cacciare i brutti pulitori vestiti di giallo ed eliminarli sparandogli con un fucile a pallettoni).
Chi non è giovane e bello e non può pedalare, o pulire, nella storia di Bing non c’è. Ci sono però una pausa per il pranzo durante la quale si può chiacchierare, un po’ di tempo libero – finito il tempo da dedicare alla bicicletta – un letto sul quale sdraiarsi e molti schermi dai quali (obbligatoriamente) guardare (se non vuoi guardare, devi pagare): musica, sesso, pubblicità. Bing vive così, fra queste cose, una mondana esistenza: assomiglia, il suo mondo, alla giornata quotidiana d’ufficio. O assomiglia forse di più al telelavoro, alle ‘conference call’ via Internet con i colleghi e gli amici virtuali (a volte non esistenti o niente affatto amici) con i quali o attraverso le quali fare ogni giorno le stesse cose solo per poter guadagnare quel quantitativo di denaro (anch’esso ormai spesso virtuale) che ci permetta di guardare poi qualcosa in streaming in pay-per-view (magari un bel film porno), di giocare via Steam o di comprare una merendina industrializzata in un sacchetto asettico assieme al caffè ‘etichetta rossa’ esattamente dosato. Tutto per potersi poi addormentare; tutto per risvegliarsi al mattino dopo, e far tutto di nuovo.
C’è però una via che permette di sfuggire a questa monotonia. E, come nei sogni di molte donne e di molti uomini, la fuga avviene attraverso una competizione – una gara televisiva dove si canta, ci si esibisce e si può vincere. Diventare una celebrità, per poter fare a meno di pedalare. La ricompensa promessa è grande: il costo per accedere lo è ancora di più.
E la vita tranquilla di Bing viene scossa da una donna giovane e molto bella, della quale lui s’innamora in modo dolce e coinvolgente: lei ricambia le sue attenzioni, gli dimostra affetto, è creativa e sa cantare e per lei, per la sua felicità, Bing decide di spendere i suoi 15 milioni di ‘meriti’ – quasi tutto quello che ha – con i quali acquista il biglietto d’oro per poter partecipare alla gara.
Si sale, assieme ad altre anime speranzose, con un ascensore. Si aspetta, in attesa di essere (senza alcun criterio oggettivo) scelti. E quando la scena della gara inizia, si viene colti dall’angoscia nel vedere una rappresentazione iper-realistica di quello che è il nostro mondo ossessionato dai Reality, dai fattori ‘X’ o ‘Y’ e dai presentatori televisivi: la differenza fra adesso e il futuro, forse, è solo il pubblico – che nel mondo di Bing assiste, vota, inneggia o fischia in forma di Avatar informatizzato (che ricorda molto quello delle console dei videogiochi) potendo in questo modo esprimersi come vuole senza metterci la sua faccia ma parlando attraverso un’ideale rappresentazione di se, che a volte non ha niente a che fare con la realtà (la ragazza bruttina che si era innamorata di Bing nella sua versione Avatar è invece molto carina, e il sudato e volgare vicino di bicicletta in canottiera in forma di Avatar è ‘cool’). Grande ricompensa – costo estremo abbiamo detto: questa competizione spietata divorerà e distruggerà chi ha cercato qualcosa (qualsiasi cosa) che fosse diverso dalla vita normale. L’abbiano fatto, lui o lei, con sincerità e desiderio di migliorare o semplicemente per primeggiare sugli altri, il risultato sarà lo stesso. Il finale, amaro.
Nella seconda stagione ci trasferiamo in un ambiente molto diverso. Il mondo non è come quello di Bing, non è una scatola, è reale, e Martha e Ash sono una giovane coppia che vive fuori città. Il panorama è fantastico, la casa è bella, il mare e i prati hanno i colori del Galles e dell’Inghilterra del sud. Tutto è perfetto, Martha ha un lavoro creativo che l’appaga e Ash è innamorato di lei. Ash non vive solo con lei, in realtà però: già da qualche tempo ha una relazione. Con i Social Media. Controlla, anche quando è assieme a lei e in modo continuo e compulsivo, il telefonino, in attesa di aggiornamenti, di foto, di messaggi, di cose nuove da vedere. Ash muore in un incidente. Al funerale, Sarah racconta a Martha dell’esistenza di un servizio – di un software – che permette di rimanere in contatto, immaginariamente, con chi non c’è più: proprio attraverso i profili dei Social Media, i ‘tweet’, i messaggi online, le registrazioni, le foto, il software sarà in grado di ricostruire un ‘Ash’ virtuale, che risponderà ai messaggi di Martha e potrà anche parlare con lei. “È un software, certo. Non è lui. Ma ti aiuterà. Ha aiutato me.” Martha rifiuta inizialmente con decisione questa ‘idea ma, quando si scopre incinta, cede all’emotività e risponde al messaggio del servizio online al quale l’amica l’aveva comunque a sua insaputa registrata. E anche Ash risponde.
Non vi racconto altro. Nella sua visione di un immaginario futuro che potrebbe essere molto vicino a noi, non ci sarà mai un momento nel quale “Black Mirror” sarà meno che angosciante, inquietante, spaventosa, emotivamente coinvolgente. Le nostre fissazioni quotidiane, amplificate da Internet e rilanciate in certe sfere politiche, fra cui spiccano in questo momento un desiderio di pubblico giudizio e giustizia di piazza sommaria, il nostro amore per i ‘reality’ in cui protagonista è molto spesso l’umiliazione dello sconfitto, una visione spesso estrema del sesso e molte altre cose, “Black Mirror” potrebbe lasciarvi senza parole alla fine di ciascun episodio. Potrebbe farvi venire voglia di chiedervi per cosa valga la pena vivere, potrebbe farvi venir voglia di lasciare il vostro lavoro, potrebbe farvi pensare che potrebbe essere una cosa buona gettare il vostro computer fuori dalla finestra e seppellire il vostro telefonino.
Sicuramente, anche se non vi piacerà, non la prenderete alla leggera, quest’ora di fantascienza, perché vi avrà colpito. Forse, ciò che il suo creatore, Charlie Brooker, ha voluto fare, è semplicemente farvi guardare nello ‘specchio nero’: farvi pensare a come il futuro potrebbe essere, per darvi la possibilità di cambiarlo. Il ‘Futuro Prossimo Venturo’ potrebbe essere qualcosa di cui avere paura.
“Osservando gli avventori di un bar, qualcuno mi ha detto giustamente: ‘Guarda come sono spenti; al giorno d’oggi, le immagini sono più vive delle persone’. Uno dei segni distintivi del nostro tempo è forse questo rovesciamento: noi viviamo conformemente a un immaginario generalizzato. Esempio estremo: provate a entrare in un locale porno di New York; non ci troverete il vizio, ma soltanto quadri viventi (da cui Mapplethorpe ha tratto lucidamente alcune sue fotografie) … un simile rovesciamento mette necessariamente in ballo la questione etica: non perché l’immagine sia immorale, irreligiosa o diabolica … ma perché, se generalizzata, essa derealizza completamente il mondo umano dei conflitti e dei desideri, mentre invece vuole illustrarlo.
Ciò che caratterizza le società cosiddette avanzate, è che oggi tali società consumano immagini e non più, come quelle del passato, credenze; esse sono dunque più liberali, meno fanatiche, ma anche più false.
Pazza o savia? La Fotografia può essere l’una o l’altra cosa … sta a me scegliere se aggiogare il suo spettacolo al codice civilizzato delle illusioni perfette, oppure se affrontare in essa il risveglio dell’intrattabile realtà.” [Roland Barthes]
Roberto Srelz © centoParole Magazine – riproduzione riservata
Certamente l’argomento è attualissimo e può interessare, ma in un mondo sempre più virtuale porre ancora maggiore accento sul tema mi pare forzare e cancellare un po’ quello che della realtà “vera” ci rimane. Non è per caso cercare di vivere in un mondo astratto, asettico e ancor più patinato di vetro nero? …
Pongo qui questa opinione del tutto personale. Ma penso sia bene meditarci un po’ su!