La sensazione che ogni scrittore in erba prova di fronte all’estenuante lavoro della scrittura è fra le parti più complesse da trasmettere in parole. Soprattutto per chi scrive. Per quanto questo sembri paradossale, scrivere di cosa susciti la propria scrittura a livello di inadeguatezza è in assoluto la prova che uno scrittore ha raggiunto la consapevolezza. John Fante (1909-1983), come nessuno mai, è stato in grado di denigrare in maniera sincera oltre che lusinghiera, la propria capacità di scrittore. Per scrivere c’è bisogno di lentezza, di sofferenza. Di lavori di qualunque tipo che ti diano la sensazione di allontanarti dalla tua scrittura per sentirne ancora di più la mancanza. Per scrivere, ci insegna Fante, bisogna sentire il sacrificio fisico, mentale e soprattutto emotivo.
A Carey McWilliams
Rose ville, California
Estate 1933 circa
Caro Carey,
qui mi sono lasciato andare. Come puoi vedere, per essere una lettera è molto lunga, ma così deve essere. Ho molte cose da dire. L’unica ragione che posso avere per scrivere a te piuttosto che a qualcun altro, è che credo tu possa capire meglio. Mettiamola così: se conoscessi Mencken (sai quello che penso di lui) come conosco te, questa lettera la scriverei a lui. Ma se non ci si può rivolgere ad un Mencken, mentre lo si può fare con un McWilliams, allora all’inferno i Mencken e gloria ai McWilliams. Così sia.
Probabilmente hai indovinato. Sto avendo dei problemi con il mio libro. Oggi ho eliminato circa sessantamila parole, la fatica di tre mesi. Ero assolutamente stufo. Lo sono tuttora. Vorrei capire bene qual è il problema. Non riesco ad identificarlo. C’è qualcosa che non va – qualcosa in me che sta cambiano. E non so come chiamarlo, né dove trovarlo. Il lavoro che ho scartato non era buono. Lo vedevo. Ogni giorno fin dall’inizio ero più scoraggiato. La sua qualità non sembrava migliorare, e la mia ribellione non è stata graduale. Ho distrutto quel lavoro in modo assolutamente deliberato. Era superficiale, artificiale. L’avevo cominciato con uno stile insidioso, l’ho trovato facile da scrivere, e proseguivo. Macinavo giorno dopo giorno, mi limitavo a tirare fuori le parole. Non era roba buona. Lo sapevo che stavo barando. Non con Knopf né con nessun altro. Ma con me stesso. Ho questa sensazione sullo scrivere. So quando sono onesto e quando baro. L’idea è questa: esteriormente, e questo è tipico, dovunque tranne su ciò che viene stampato, io sono più o meno un ciarlatano. Nelle relazioni con la gente intellettualmente inferiori a me in modo evidente, faccio il furbo. Inutile dire che non cerco di giocare alcun tiro a un tipo come te. Sono abbastanza intelligente da capire che sei più intelligente di me. Ma con altri ci riesco. Non sto alludendo alla disonestà fisica. Non sono un ladro – piuttosto un furbacchione. Un furbetto. Il ragazzo dai capelli bianchi. Mi comporto spesso in questo modo privo di senso. E di solito me la cavo. Incedo impettito in modo anormale. So che è un tipo di gioco stupido e pericoloso, ma lo faccio lo stesso. Il risultato è che sulla carta stampata sono brutalmente onesto, proprio l’opposto nella vita reale (come vedi mi conosco piuttosto bene). Ora il mio libro lo sta scrivendo il furbo e non il vero me stesso. Il risultato mi fa inorridire. Ciò che ho scritto è putrido. È il furbo, il ragazzo dai capelli bianchi, il ragazzo “che ce l’ha fatta” al “Mercury” a vent’anni e disgustose stupidaggini del genere, ad apparire in ogni frase di questo primo romanzo, e io preferirei andare in galera piuttosto di fare leggere questo libro alla gente, perché non c’è verità. Non intendo fatti autobiografici. Intendo qualcos’altro. Non so come lo chiameresti, è diverso dall’autobiografia, eppure ci si avvicina molto. È il sentimento che si ha quando si comincia a scrivere qualcosa che si ama davvero, il sentimento di essere in un ruscello e di continuare a galleggiare senza fermarsi. Non credo di essere riuscito a rendere ciò in modo chiaro, ma la cosa migliore che posso dire è che quando scrivi e sei in questa vena di cui parlo, provi una soddisfazione molto intensa per quello che stai facendo. Non ti preoccupi più di trame e sequenze drammatiche. Vengono naturalmente. Ti limiti a scrivere e scrivere, ed ecco! Perdio, c’è una storia, ed è una storia meravigliosa. Conosco quel sentimento. Se non lo provo, scrivo come il ragazzo dai capelli bianchi. Che vada a farsi fottere!
Bene, ho buttato via il lavoro fatto fino ad oggi, il romanzo basato sulla mia vita familiare. Credo di aver fatto un errore nel venire a Roseville a stare giorno e notte con la mia famiglia. Mia madre è stata qui tutto il tempo. È molto seccante. Ecco una situazione per te. Un uomo siede in una stanza e scrive un racconto su sua madre, ci sono episodi in quel racconto che hanno a che fare con gli eventi più segreti della vita di quella madre. E nella stanza quel tipo scrive. E nella camera accanto siede la madre di quel tipo con un rosario nelle mani. E cosa fa se non pregare per il successo di quel racconto? Gesù Cristo! Se solo sapessi che effetto fa su un uomo. Gli fa sentire come se le sue interiora fossero esposte a tutti. Ne ho abbastanza. Torno a Los Angeles.
Ricomincerò. Ma non voglio lavorare giorno e notte a questo libro. Voglio fare qualcos’altro. Ho ancora duecento verdoni che mi arriveranno da Knopf, e almeno posso ripartire. Però mi piacerebbe riposare per due settimane. Bighellonare. No fare altro che camminare per strada. Vedere gente, parlare, prendere da bere, in breve, fare tutto quello che non si può fare con duecento dollari.
Vedi, Carey, ho lavorato duro. Ho scritto fino a esaurirmi. Mi sono sforzato, e il risultato non era mai soddisfacente. La non soddisfazione più lo sforzo mi hanno trasformato fisicamente in un relitto. Ho quello che si può definire un sacco di stupide idee sullo scrivere, ma se mi viene detto che sono stupide non mi aiuterà. Lo devo scoprire da solo. Nel frattempo Knopf aspetta il suo romanzo. Sono in un tremendo casino. Voglio dire, almeno credo di esserlo. Forse lo prendo troppo sul serio. Alle volte credo di aver sopravvalutato la mia importanza e il mio significato. Ma davvero non lo so. Forse dovrei andare a scavare fosse. Non lo so.
Comunque tu prenderai questa lettera, spero che proverai a capire che è sincera. Sono molto contento di avere il privilegio non richiesto di scriverti, e mi sento come se qualcuno presto o tardi mi dovrà ascoltare. Se mi impongo con te, bene, almeno posso dire che so come scegliere i buoni ascoltatori, e se non ti dispiace, apprezzerò moltissimo dei consigli vecchia maniera, paterni, quando tornerò in città. Devo ammettere che ne ho tantissimo bisogno, e non so da dove prenderli, e diventando poetico per un istante, potrei scalare la montagna più alta pur di ottenerli.
Il mio problema è che negli ultimi tre mesi è stato tutto troppo facile. Non ho fatto alcuna fatica fisica. Non ho fatto niente di più se non scrivere il mio libro. È stato troppo per me. Troppo lusso. Oh, certo che il libro era lavoro, ma le circostanze erano troppo serene. Sono stato troppo spavaldo. Ero un romanziere. Ehi! Ehi!
Mi piacerebbe sapere cosa pensi di ciò che ho scritto, e cosa puoi suggerire. La mia idea è di trovarmi un lavoro quando tornerò al Sud. Non voglio i soldi, ma la disciplina, e se potessi permettermelo, pagherei per lavorare; in questo modo la mia giornata troverebbe un equilibrio tra lavoro e scrittura. Voglio andare a lavorare a Main Street, a lavare piatti. Qualsiasi maledette cosa. Allora scriverò il mio libro lentamente, arrivandoci fresco ogni giorno. Ci vorrà di più a scriverlo, ma voglio fare un buon lavoro. Qualcosa di cui possa essere orgoglioso. Potrei mettermi a sedere e buttare giù un a brutta storia in due settimane, ma non è quella l’idea. E non sono nemmeno i soldi. Voglio riprovare quel “sentimento”. Esito a chiamarla ispirazione perché l’uomo che adopera la parola ispirazione è colui che spesso dà voce ad aspirazioni, “Gesù mio, pietà!” eccetera.
I miei più sentiti ringraziamenti per aver letto questa lettera, Carey. Spero che tu riuscirai a farti una tua idea e che tu mi faccia poi sapere come la pensi. Sono desideroso di ascoltare dei buoni consigli più di ogni altra cosa e so riconoscerli. Ti verrò a trovare molto presto quando sarò in città. Ti telefonerò per sapere quando non sei troppo occupato quando questa lettera arriverà, sarò già sulla via.
In confidenza,
J. Fante
Tratto da Lettere 1932 -1981 di John Fante Einaudi, 2014
Francesca Schillaci © centoParole Magazine – riproduzione riservata