Inaugurata il giorno 1 novembre 2015 (e aperta sino al giorno 6 gennaio 2016) presso gli affascinanti spazi polifunzionali del restaurato Magazzino delle Idee, la mostra “Il mondo è là. Arte moderna a Trieste. 1914-1941” intende offrire al pubblico locale e a coloro che, giunti in città, desiderano avvicinarsi alle soluzioni locali dell’arte contemporanea del primo Novecento, un percorso al tempo stesso scientifico, estetico ed emozionale nel panorama delle arti di Trieste e della Venezia Giulia in età contemporanea.
La mostra, promossa dalla Provincia di Trieste e appoggiata da importanti partner locali e statali dediti alla diffusione e promozione della conoscenza delle arti e della cultura, ripercorre nei suoi elementi essenziali lo sviluppo delle arti contemporanee nell’area attualmente compresa tra la Regione Friuli Venezia Giulia, la Slovenia e l’Istria croata. Tale iniziativa si pone in continuità con analoghe mostre e iniziative svoltesi negli ultimi anni (quali, ad esempio, la mostra “CentoNovecento. Un secolo d’arte in cento opere della collezione Fondazione CRTrieste” sempre promossa dalla Provincia e svoltasi in tarda primavera presso il Magazzino delle Idee, o le iniziative promosse dal Civico Museo Revoltella assieme all’Università degli Studi di Trieste e il locale I.S.A. e Liceo artistico Enrico e Umberto Nordio) miranti alla promozione della conoscenza di aspetti storico-artistici e culturali, poco noti ma di assoluto rilievo, del nostro territorio e della nostra città.
Le oltre cento opere (di pittura, grafica, scultura e fotografia) e gli inestimabili documenti (manoscritti e stampati), conservati sia a Trieste che in altre località italiane, europee e non solo (basti citare la Melanconia del naufragato di Arturo Nathan, generoso prestito del Museo d’Arte di Tel Aviv) ripercorre, attraverso un percorso espositivo in cui il tradizionale concetto di sezione decade a favore di un cammino evocativo lungo spazi privati di vincoli architettonici inamovibili, il cammino degli artisti e dei critici triestini e della Venezia Giulia in un periodo compreso tra il 1910 (anno in cui, alla Biennale di Venezia, una sala viene dedicata alle arti cittadine) sino al 1941 (anno in cui la collezione di Mario Rimoldi, vincitrice di un apposito premio per le collezioni private d’arte contemporanea promosso dallo Stato, viene esposta a Trieste presso la Galleria d’arte al Corso). Questa selezione di capolavori testimonia, appunto, il difficile e per niente scontato contesto artistico di questa area di confine, animata da diversi contesti umani e culturali conviventi e uniti a creare un complesso e unico macro-contesto sociale e antropologico.
L’opera che apre il percorso di visita, la Conversazione in un interno di Giuseppe Barison (1910, Trieste, Civici Musei di Storia ed Arte), coeva alla Biennale veneziana, è una testimonianza del contesto borghese cittadino, multiculturale e profondamente cosmopolita, che determina i gusti artistici locali: apparentemente attardato sulle offerte avanzate dagli ambienti accademici mitteleuropei, il mondo artistico e culturale di Trieste e della Venezia Giulia volgeva le sue attenzioni anche alle novità che andavano affermandosi nella vicina Italia (e, in particolare, le iniziative promosse dalla Biennale e da Ca’ Pesaro) e le novità dell’arte francese, come possono testimoniare due ritratti di Piero Marussig, il Ritratto della madre (1910, Milano, Pinacoteca di Brera) e la Bambina con palla (1915-1916, collezione privata), che si caratterizzano per la felice unione del decorativismo jugend col colore innaturale ma fortemente emotivo, nella sua intensità, derivato dalle suggestioni apprese a Parigi. Ma è soprattutto Vittorio Bolaffio a farsi interprete di una nuova stagione artistica vicina ai fermenti promossi dalle esposizioni di Ca’ Pesaro e le novità italiane (e in particolare la pittura divisionista, affrontata da Umberto Boccioni – in mostra vi è il suo Ritratto del dott. Gopcevich, del 1906 e attualmente in collezione privata), a cui egli ha saputo unire le suggestioni della pittura di Paul Gauguin e un sentimento nuovo, mistico, volto alla quotidianità umana: esempio assoluto è il Paesaggio con asinelli e albero (Roma, Collezione Carlo Bolaffio). Tale innovativa stagione veniva così a convivere con i gusti più tradizionali, caratterizzati ormai, nella mitteleuropea Trieste, per una vicinanza alle suggestioni secessioniste (in particolare, quelle viennese e monacense) e le raffinate dottrine simboliste, come si può intuire dall’Amazzone di Vito Timmel (1916, collezione privata).
Ma la guerra cambiò tutto… Se il periodo compreso tra il 1914 e il 1915 fu traumatico in quanto generò, nel contesto triestino e giuliano, una frattura tra i lealisti asburgici (che non persero tempo a sfogare il loro odio e rancore verso i simboli della comunità italiana di queste terre) e gli irredentisti italiani che si unirono all’esercito italiano (o lo appoggiarono in diversi modi), la fase storica apertasi col 1918 e conclusa il 1920 (anno della stipula del Trattato di Rapallo, che determina la forzata rinuncia italiana alla Dalmazia) è maggiormente grave in quanto segna la fine dei sogni irredentistici italiani: anzi, alla fine delle illusioni si afferma una dolorosa presa di coscienza del fallimento dei progetti politici portati avanti, nel contesto artistico-culturale, dal movimento futurista (evidente nella marcata affermazione, nel corso del decennio precedente, del primo Futurismo a Trieste, nonostante il clamore suscitato dalle serate marinettiane svoltesi presso il Politeama Rossetti nel 1910). Opera emblematica di tale momento è la Figura con pipa di Gino Parin (1920, Lugano, Collezione Città di Lugano): questa squisita opera non è importante solo per la grande qualità pittorica e la freschezza del tocco pittorico, ma soprattutto per il messaggio insito nel dipinto, concretatosi nella definizione volutamente abbozzata di una carta geografica che, molto più chiaramente di infinite parole, descrive l’ambiguità storica e geopolitica affermatasi in Europa (espressa anche in uno schizzo su un suo taccuino autografo rappresentante una veduta di tetti cittadini, accompagnati da una freccia e la scritta “Il mondo è là” – frase che riassume il contenuto della mostra e le dà il nome).
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L’annessione all’Italia, fatto traumatico (seppure voluto) per la terra giuliana, determinò da parte degli artisti locali un totale ripensamento della tradizione artistica cui fare riferimento. Nonostante ciò, il percorso di ammodernamento delle arti in queste terre si caratterizzò per un lungo e complesso processo di attuazione ed elaborazione, che darà i suoi frutti attorno alla metà degli anni Venti, grazie anche al contributo di artisti provenienti dalla comunità slovena giuliana. Se l’apertura della Scuola costruttivista da parte di Augusto Cernigoj (1925) segna una tappa basilare nello sviluppo in chiave moderna dell’arte giuliana, due artisti decretarono invece l’affermazione (e gli invalicabili limiti) dell’arte futuristica: Giorgio Carmelich si affermò quale esponente di spicco del Futurismo giuliano per poi abbandonarlo a favore di un percorso artistico nuovo e originale, noto come Realismo Magico; Vito Timmel, invece, riducendo a elemento scenografico e decorativo le componenti dinamiche e architettonicamente strutturali del linguaggio futurista (come è evidente dal confronto tra il suo Studio dell’artista del 1922 – in collezione privata – e lo Studio plastico-architettonico di Antonio Sant’Elia, opera del 1913 ca conservata presso la Pinacoteca Civica di Como, altro generoso prestito alla mostra), ne decretò il fallimento. Nuova linfa, come già accennato, venne dagli artisti sloveni: in particolare, Veno Pilon si distinse per un’attenzione nuova e multiculturale alle ultime novità francesi, come testimonia la Vecchia centrale elettrica di Hubelj (1923, Aidussina, Galleria Pilon) in cui un linguaggio essenziale, ma ancora figurativo, si fonde con forme plastiche e geometriche memori della migliore lezione cubista di Georges Braque e Pablo Picasso.
In un’ottica ormai pienamente nazionale, il 1918 è fondamentale nel contesto del rinnovamento artistico (e del conseguente dibattito) in quanto esce il primo numero della rivista “Valori Plastici”, che si fa baluardo della necessità di un recupero, in chiave totalmente moderna e aggiornata, della tradizione artistica italiana: il dibattito messo così in moto trova nell’area giuliana un terreno “vergine”, in quanto le tradizioni locali mitteleuropee tendono (almeno nella fase iniziale) a fondersi con l’insegnamento della tradizione italiana nel processo noto come Ritorno all’Ordine: in tale contesto, spicca l’opera di due artisti, presenti in mostra con due dipinti ciascuno. Il Ritratto femminile di Bruno Croatto (Trieste, Collezione Fondazione CRTrieste) e il successivo dipinto dell’Annunciazione (1928, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna) testimoniano l’evoluzione pittorica di un artista che, pur rimanendo fedele alla rappresentazione figurativa, è giunto a esiti di una plasticità cristallina degna erede dei dipinti di Piero della Francesca: se il primo dipinto si distingue per le audaci scelte cromatiche e una pennellata sbarazzina e impetuosa, capace al tempo stesso di riprodurre con fedeltà le impressioni di una visione fulminea e instabile, giunge, col secondo, a una rappresentazione assolutamente definita e cristallizzata nella consistenza degli elementi dell’opera, a cui vanno aggiunti i raffinati studi cromatico-luministici resi in dettagli squisiti (come il bicchiere con la rosa o la definizione del contrasto tra parti in luce e quelle in ombra determinato dal raggio di luce mistica che domina la scena). Evoluzione simile si riscontra anche in una coppia di dipinti di Piero Marussig: se nella Donna che si pettina (donna allo specchio) (collezione privata) il pittore dimostra di conoscere e competere con la pittura postimpressionista ed espressionista francese ed europea (si possono, infatti, notare analogie con alcuni dipinti di Vincent Van Gogh), nella successiva Ragazza con anfora (1925, collezione privata) è palese un’evoluzione nei riferimenti artistici e nel conseguente gusto pittorico, con l’abbandono delle squillanti cromie (a favore di uno studio accurato sulle terre e le ocre) e una sobrietà quasi arcaica delle forme e delle geometrie che compongono l’opera (che paiono testimoniare quasi un interesse per forme arcaiche desunte dall’arte etrusco-romana o quelle egea e arcaico-greca).
In questo nuovo contesto, per gli artisti triestini, Firenze diventa il nuovo punto di riferimento per la riscoperta di un linguaggio artistico e culturale nazionale (che in città deve appena trovare, parzialmente, radici nuove) e simbolo della modernità intellettuale italiana: tra gli esiti migliori, spicca il trittico del Calvario di Giannino Marchig (1919, collezione privata) che, con la sua sobrietà cromatica, la solida concezione degli spazi e un gusto austero di vaga ispirazione trecentesca, compete con gli esiti più essenziali e radicali della pittura moderna in un’ottica volta a rimeditare la tradizione artistica della nazione.
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In questo contesto di riscoperta e rimeditazione della tradizione artistica italiana (che nel corso degli anni Venti verrà sempre più assoggettato alle politiche ideologiche del Fascismo), si affermò un movimento artistico di risposta all’imposizione pedissequa, e ormai ridotta nella sua fertilità, del Ritorno all’Ordine: nel 1925, Arturo Nathan e Giorgio Carmelich importarono a Trieste il cosiddetto Realismo Magico, clima artistico e culturale nato in seguito all’opera omonima di Franz Roh e caratterizzato dall’adozione di un linguaggio onirico e plastico al tempo stesso. Tale movimento avrà come massima manifestazione (e segno, in primo luogo a Trieste, dei suoi limiti) l’esposizione milanese alla Galleria di Barbaroux a cui parteciparono Nathan, Carlo Sbisà e Leonor Fini. Occasione preziosa, incarnata da questa mostra, è la presenza di alcuni capolavori eseguiti tra il 1925 e il 1929 da questi pregiati artisti: preme ricordare due opere grafiche di Nathan, l’Asceta (1926, Collezione Vaccari-Susmel) che testimonia l’attenzione per l’arte nordica (e ad Albrecht Dürer in particolare) e il generoso prestito israeliano della Melanconia del naufragato (1928, Tel Aviv, Museo d’Arte); notevoli anche due capolavori di Sbisà, Magia (1928, collezione privata) e Città deserta (1929, collezione privata) a testimonianza delle suggestioni architettoniche fiabesche ispirate, probabilmente, dallo studio di opere e teorie rinascimentali aventi come soggetto il tema della città ideale.
Gli anni Trenta segnano una tappa fondamentale nel percorso artistico di Trieste e della Venezia Giulia. Se nel 1931, alla “Mostra d’Arte d’Avanguardia”, Enrico Fonda riesce a portare a Trieste l’opera di Maurice Utrillo (dati i forti legami che univano l’artista, Trieste e Parigi), le Esposizioni interprovinciali promosse dal Sindacato Fascista Belle Arti nel periodo 1931-1934 vedono la presenza ormai crescente di artisti friulani e fiumani che offrono, con le loro opere, una diversa interpretazione della modernità italiana, appresa da questi artisti nel corso dei loro soggiorni formativi a Firenze, Milano e Roma. A ciò, va segnalato il progressivo abbandono delle esposizioni (collettive e personali) da parte degli artisti sloveni (e, in generale, coloro che non erano ben visti dal regime) in seguito alle pressioni esercitate dagli organi corporativi più o meno ufficialmente fascisti verso gli artisti non allineati. In mostra, vanno segnalate, per la loro qualità e importanza nel contesto dell’arte contemporanea giuliana, una serie di capolavori: la Finestra sull’Adriatico di Odino Saftich (1925, Collezione Vaccari-Susmel); il Ritratto di Francesco Drenig e l’Autoritratto (rispettivamente 1931 e 1929, Fiume, Museo d’Arte Moderna e Contemporanea), che testimoniano un’attenzione volta alla pittura cubista ed espressionista; la Sirenetta (Bambina con palla) di Santo Bidoli (1935, Assicurazioni Generali S.P.A.), ispirata alla scultura della Derelitta di Domenico Trentacoste del 1893 conservata presso il Civico Museo Revoltella; l’Autoritratto di Afro Basaldella (1935, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna), che anticipa la successiva produzione astratta; l’Estuario illuminato dalla luna di Nathan (1934, collezione privata); e l’Autoritratto di Anna Maria Boldi (1934, Gorizia, Collezione Alesani), opera dell’unica pittrice presente in mostra assieme a Leonor Fini.
Un nuovo trauma per il contesto artistico locale è segnato dalla promulgazione a Trieste, nel 1938, delle leggi razziali volute da Mussolini; come diretta conseguenza, nel 1940 furono tolte dalle sale del Museo Revoltella le opere degli artisti ritenuti non ariani (che trovarono, conseguentemente, difficoltà nell’esporre). Lo stesso anno, però, il ministro Giuseppe Bottai istituisce presso il Ministero dell’Educazione Nazionale l’Ufficio dell’arte contemporanea, e, l’anno seguente, viene istituito un premio per le migliori collezioni private d’arte contemporanea e le gallerie più attive in tal senso; a Trieste, verrà esposta, presso la Galleria d’arte al Corso, una selezione dei capolavori della collezione di Mario Rimondi (permettendo, nonostante il teso clima bellico, l’aggiornamento degli artisti giuliani).
Ma, ormai, si era nuovamente in guerra… E già vi erano sensibilità in qualche modo critiche alla politica fascista. Va ricordato sicuramente un dipinto, posto in chiusura di questa mostra, il Ritratto di Paolo Brichetto Arnaboldi di Arturo Rietti (1940, Collezione Paola Guida Brichetto Arnaboldi): il vecchio liberale triestino ritrasse questo giovane partigiano, con uno sguardo malinconico (ma non irrimediabilmente rassegnato) volto verso lo spettatore (ma, al tempo stesso, al presente drammatico in cui visse o a un futuro ancora da costruire…?) con una maestria e un’energia inalterata, forse un ultimo “canto del cigno” dell’arte figurativa in un mondo che conoscerà la catastrofe della guerra più sanguinaria e spietata e che troverà, in nuovi criteri artistici, una via d’interpretazione e comprensione.
Marco Rago @ centoParole Magazine – riproduzione riservata
foto di Serena Bobbo