Entrare nell’albergo “Pace Alpina” a Ravascletto, gestito della famiglia De Infanti, significa immergersi in quelle che sono le tradizioni della Carnia.
Seduto in un angolo del ristorante, con il suo inseparabile sigaro toscano, possiamo trovare Sergio De Infanti – alpinista, guida alpina, maestro di sci e scrittore. A fargli compagnia c’è il suo Bovaro del bernese Nebbia: un affettuoso cane. È impossibile sfuggire alle avventure e ai tanti aneddoti che Sergio, molto volentieri, racconta.
La cucina offre piatti tipici come il frico con la polenta; tutti curati nei dettagli, e ottimi anche per i palati più raffinati. Le camere sono spaziose, accoglienti, fresche, in perfetto stile montanaro. Inoltre, l’albergo ha ottenuto il marchio Ecolabel, che certifica le attività a basso impatto ambientale.
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Per gli appassionati della montagna, Ravascletto offre meravigliosi sentieri da esplorare, come quello dietro a “Pace Alpina”, dove i bambini possono seguire un percorso davvero divertente, assieme agli Sbilf del bosco – folletti che popolano i boschi e le montagne del Friuli e della Carnia – che qui troviamo intagliati nel legno.
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Il nome dell’albergo racchiude in sé il segreto di questo angolo carnico: la pace, il silenzio, elementi chiave per una perfetta e soprattutto rilassante vacanza.
Sergio, quando è nata questa sua passione per la montagna?
Quando ero ragazzo. Sono nato qui, a Ravascletto…
E quando ha iniziato a scalare?
Non tanto presto, a 19 anni, per caso, a Cervinia. Era il 1963. Dormivo in camera con due guide alpine, Luigino Bianchi di Varese e Mauro Enrico, friulano, che mi hanno spinto a provare.
La scalata più particolare che ha fatto?
Di scalate ne ho fatte tante: più di mille; ognuna aveva la sua particolarità, i suoi compagni. Vuol dire molto con chi si ha arrampicato, la gente che si ha frequentato.
Con chi ha arrampicato?
Un po’ con tutti, con cani e porci (ride).
Quando ha conosciuto Spiro Dalla Porta Xydias?
Spiro l’ho conosciuto nel 1972, al funerale di Enzo Cozzolino. Assieme abbiamo poi fatto una guida – erano le prime esperienze di guide di alpinismo.
Come si viveva una volta in montagna?
In montagna la vita era diversa da quella che c’era in pianura. Ravascletto si trova a mille metri di quota e quando c’è brutto tempo – come è successo l’anno scorso – le messi non arrivano a maturazione. Una volta non c’era il frigorifero, né il freezer; quindi era difficile conservare le messi. È stato un gran bene quando dall’America sono arrivati i fagioli e le patate.
L’emigrazione era una fonte di guadagno, per le genti di montagna: d’inverno gli uomini andavano a lavorare altrove, nelle città. Tanti “De Infanti” sono emigrati in Germania e il cognome è stato successivamente tedeschizzato. Qui a Ravascletto siamo rimasti circa una trentina, pochi, rispetto a quelli che se ne sono andati.
Quando ha aperto l’albergo-ristorante “Pace Alpina”?
Non l’ho aperto io: è stato mio padre, quando io ero ancora piccolo. La seggiovia che si trova vicino all’albergo, è stata costruita nel 1949 da un triestino; Nel 1945 egli aveva fatto un voto alla Madonna: se fosse riuscito a salvarsi dalle truppe di Tito entrate a Trieste, si sarebbe ritirato in montagna. E così ha fatto. A Ravascletto ha costruito il rifugio “Stella Alpina” e la seggiovia che porta al rifugio; il locale era sempre pieno di corriere, di americani, di inglesi che, fino al 1954, venivano da Trieste. C’era un giro micidiale! La seggiovia è poi stata venduta al comune.
Quindi, all’epoca, c’era più turismo a Ravascletto?
Sì, già prima della guerra. La gente restava di più, alloggiava nelle case private: i padroni di casa si sistemavano in soffitta, affittando le camere ai turisti; mangiavano alle undici del mattino, dando la possibilità agli ospiti di mangiare a mezzogiorno o all’una. Queste cose ormai non si fanno più.
Perciò si viveva di più la zona?
Sì, diciamo che ci si arrangiava di più. I prati erano falciati e ben tenuti, il territorio era perfetto. Poi la gente ha trovato la vita più facile – quella delle città – e ha lasciato il paese. Noi qui paghiamo uno scotto tipico delle periferie: per esempio, a insegnare nelle scuole vengono mandati professori al primo incarico, che non hanno ancora una grande esperienza di vita.
Com’è adesso il turismo a Ravascletto?
Per noi va bene; adesso si lavora molto in inverno con l’Est, in particolar modo con la Repubblica Ceca. Oggi sono loro a “tappare i buchi”, perché gli italiani non hanno più tanti soldi.
Quindi c’è più gente in inverno che in estate?
Sì, c’è più gente in inverno. Siamo bene attrezzati per la stagione invernale, mentre per quella estiva molto di meno.
Il turismo invernale per un verso è migliorato e per l’altro è peggiorato: la gente non ha grosse disponibilità economiche. Io sognavo di far sciare gli operai, ma ho fallito nella mia impresa.
Ricordo che trenta-quaranta anni fa, quando lavoravo a Cervinia, venivano delle corriere da Genova, che portavano la gente a sciare; una volta ne presi una anch’io: volevo capire il meccanismo.
Gli operai prendevano la corriera alle tre del mattino e arrivavano a Cervinia alle nove e mezza; andavano a noleggiare gli sci – quella volta gli sci non erano un granché: erano com’erano… – e dopo due ore di sciate, erano morti di fatica. Poi si recavano in osteria, e alle quattro la corriera ripartiva per Genova.
Gli scarponi di cuoio e gli sci di legno costavano cari; il mio maestro mi diceva: “Arriverà un momento in cui faranno gli sci e gli scarponi di plastica”. Infatti, pochi anni dopo, li hanno inventati. Ma invece di costare di meno, il prezzo è aumentato. Ormai lo sci è uno sport per ricchi.
Anni fa, a Udine – quando si cercava di promuove nelle scuole la settimana bianca a Ravascletto e nelle altre località – un signore, che era fonditore alla fonderia Bertoli di Udine, dopo aver sentito un professore spiegare la bellezza della settimana bianca per i bambini, si alzò e disse che, con uno stipendio di poco più di trecentomila lire al mese e tre figli a carico, era impossibile portarli in montagna: l’attrezzatura era troppo costosa; mentre era più semplice mandarli in piscina: lì serviva solo il costume. Insomma, c’è poco da fare: per divertirsi si spende e se la gente non ha soldi, non può spendere.
Forse una volta, anche con poco, ci si divertiva di più rispetto ad oggi…
C’era la gioia di vivere, come anche a Trieste dopo la guerra.
Oggi, invece, questa gioia di vivere non si percepisce tra i giovani, o meglio hanno un’altra idea di divertimento.
La televisione e le tante tecnologie hanno cambiato il modo di vivere. La gente che passa per Ravascletto con i costosi “cavalli di metallo” (le moto), sfrecciando a grande velocità e facendo centinaia di chilometri al giorno, non può chiamare questa “vacanza”.
Lei ha fatto il maestro di sci.
L’ho fatto per quarantun’anni. Sciare sulla neve fresca è meraviglioso; correre in discesa libera è bellissimo: ti fa sentire un po’ uomo, un po’ uccello. Le piste di una volta non erano come quelle di adesso tutte ben battute; gli sci erano quel che erano come pure i vestiti: avevamo sempre freddo.
A Ravascletto c’è ancora qualcuno che fa il boscaiolo?
Di boscaioli, in paese, ce ne sono tre o quattro; una volta ce n’erano centocinquanta. Il bosco era sacro, adesso non lo è più; c’è un altro modo di lavorare: si prende la risorsa e la si porta via.
Ma c’è ancora qualcuno qui che fa il formaggio in casa?
Sono davvero pochi; ci sono quei due-tre della Carnia. C’è una latteria a Sutrio dove fanno un buon formaggio, che noi compriamo.
L’erba di Ravascletto non vale niente: non ha sostanze. Le mucche la mangiano volentieri, perché ha un buon sapore, un buon profumo e le riempie di gioia, ma non ha niente a che vedere con le erbe mediche che ci sono in Friuli.
Un contadino, che veniva a falciare le piste qui da noi, diceva: “La vostra erba non vale niente!” Però, quando le sue mucche mangiavano l’erba che nutre, alla fine, lui dava loro anche una manciata del nostro fieno. Le mucche arrivavano subito ed erano felici di mangiare una cosa veramente buona, anche se priva di sostanze. Qui in montagna non viene fuori un’ “ostia”, non è come in Grecia, dove basta che un bambino butti a terra dei semi di pomodoro, perché una pianta venga fuori subito (sorride).
Che cosa rappresenta per lei la montagna?
La vita! Io vivo in Paradiso, mi sento in Paradiso. Lei ha visto stamattina il panorama sulla Val Pesarina? Per lei, probabilmente, è un sasso, invece per me, non lo è. Io conosco ogni spigolo, ogni posto, ogni luogo, e quando guardo in quella direzione mi ricordo dei miei compagni. Quando sono sulla scala del mio albergo e vedo illuminata la via verso la Val Pesarina, mi vengono in mente tanti ricordi e subito mi raddrizzo un po’ (sorride)…ora sono un vecchietto.
La montagna, però, è anche un posto dal quale scappano un po’ tutti: la vita qui è difficile; per me, invece, è stupenda. Ci vivo con serenità e bellezza.
La montagna è bella, ma, a volte, può fare anche paura. È imprevedibile!
Da giovane, quando ho cominciato a scalare, avevo anch’io questa paura. Ma poi ho imparato a concentrarmi, ad allenare il mio fisico; ho imparato tante cose. Ho fatto la guida alpina per quarant’anni. La montagna l’ho proprio amata; non ho fatto fatica ad amarla.
Ho esplorato non soltanto le montagne qui vicine: sono stato anche in Oriente, in Pakistan, in Iran, nel Nepal, in Turchia, dove hanno delle montagne bellissime. È stata una bella avventura, un’esperienza meravigliosa.
Prima di partire avevo letto molto sull’Oriente, ma non c’ero mai stato: non avevo soldi. Ho cercato così di diventare il più forte alpinista della regione, sperando che qualcuno mi chiamasse per qualche spedizione in Oriente.
Com’è la gente di quei paesi così lontani da noi?
La gente è buona dappertutto. Basta essere umili. Prima di andare in quei posti bisogna informarsi, leggere molto e cercare di capire la loro cultura; quando si arriva bisogna adattarsi al loro modo di vivere. Spesso noi crediamo di essere i re del mondo, invece non lo siamo.
Durante le sue scalate, a cosa pensava?
Nel momento in cui scalavo ero sempre concentrato, avevo la mente fredda, scomponevo tutto. Quando sei lì, devi scomporre, scomporre e scomporre.
Io avevo la fortuna di non essere un gran mangione, ho sempre mangiato poco, e ancora oggi il mio corpo assimila tutto molto bene; non ho bisogno di tanto cibo per vivere. Quando il brutto tempo si protraeva per giorni, e il cibo diminuiva, i miei compagni diventavano matti. Erano distrutti. Io, invece, riuscivo a resistere, l’unico mio problema era la bassa pressione. Partire al mattino era per me una disgrazia: piegarsi per allacciare la cinghia dei ramponi, non era piacevole…Ma, con il passare delle ore, la pressione si sistemava. Dal punto di vista fisico sono stato fortunato; penso che, in parte, il fisico lo si crei con la testa.
Pur essendo stato più volte all’inferno, sono sempre tornato “vivo” dalle mie scalate sull’Eiger, sull’Himalaya… anche se a volte mal ridotto (sorride).
La sua è veramente una grande passione.
In fondo è una fregatura: non ho mai avuto soldi. Ho iniziato a insegnare nel 1966; ero il maestro di sci di primo grado numero 1042. Lavoravo d’inverno e, poiché eravamo in pochi in Italia, si guadagnava bene, ma io spendevo tutto per le mie scalate in montagna (Nel 1970 era l’unico maestro di sci della Carnia, e ha fondato la “Scuola Sci Ravascletto”, che ha avuto un grande grande successo. n.d.s).
Ero diventato bravo e avevo amici un po’ dappertutto. Di solito a metà agosto finivo i miei soldi e allora telefonavo allo Stelvio, dove c’era Giuseppe Pirovano – alpinista famoso che aveva tre scuole di sci: una a Cervinia, una allo Stelvio e una al Tonale. Io lo chiamavo e gli dicevo: “Ho fame”, e lui mi rispondeva: “Vieni domenica”. Sono andato lì per qualche anno. Poi un giorno, dopo quattro-cinque anni che ci andavo, ricordo che mentre aspettavo la seggiovia, ho incontrato un mio vecchio amico che stava andando via. Dopo avergli chiesto cosa stesse facendo, lui mi ha risposto che era stato licenziato e stava tornando a casa. Ho capito così che lui era stato mandato via per dare il posto a me. Mi sono vergognato molto, perché lui aveva due figli ed io ero libero, pieno di forze e avrei potuto fare qualsiasi altro lavoro, anche lo straccivendolo – tanto per vivere basta poco – invece avevo preso il posto ad un amico. Dopo quella volta, non ho più chiesto aiuto a Pirovano.
Lei ha anche scalato l’Everest…
Avevo un amico di Lubiana, Kunauer, che era un fortissimo alpinista e capo delle spedizioni jugoslave. Entrambi volevamo chiudere la nostra carriera aprendo una via nuova, in una zona dell’Everest ancora inviolata. Ero riuscito ad ottenere un ottimo finanziamento (circa sessanta milioni) da parte di Comelli, Presidente dell’allora Giunta Regionale. Questo accadeva nel 1983, nel 1985 saremmo dovuti partire per l’Everest, purtroppo Kunauer morì in un incidente: non se ne fece nulla.
Nel 1984 sono andato sul Tirich Mir – la più alta montagna del Hindo Kush – dove ho soccorso il mio amico Antonino Cella: aveva un edema cerebrale. Mentre stavamo scendendo, mi sono ritrovato con i piedi nell’acqua: si era rotta una lastra di ghiaccio; non avevo bevuto niente e quindi a causa della disidratazione entrambi i piedi mi si sono congelati. Tornato a casa, nell’ospedale di Tolmezzo, mi hanno tagliato l’alluce.
Nel 1990 ho scalato l’Everest su invito della Società Alpina Slovena di Trieste. Sono arrivato fino a 8.000 metri, da solo, senza bombola. Mi sentivo bene, tanto che mi è venuta la voglia di fumarmi un sigaro toscano, ma a oltre 7.000 metri, accendere un sigaro, è una vera impresa! L’accendino non funzionava, così ho provato con un fornelletto da campo. I polmoni, però, hanno protestato un po’… (sorride).
Arrivato a 8.000 metri, volevo applicare il regolatore alla bombola di ossigeno, ma il bullone non si allentava; ho chiesto aiuto, senza ottenerlo. Non volevo rischiare, così ho lasciato perdere, e sono tornato a valle.
Ringrazio Sergio De Infanti per la divertente e piacevole chiacchierata.
Nadia Pastorcich ©centoParole Magazine – riproduzione riservata.
Foto di Nadia Pastorcich