Il prete: un racconto

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Di questa città amo il vento. Nervoso e volitivo, duro e tagliente, come un giudizio, che colpisce di deboli, i distratti e tutti quelli che non sentono la terra sotto i piedi nella sua interezza. È un vento cattivo e rigidamente aggrappato ad una sua etica. È un vento che chiede rispetto e generalmente lo ottiene.
È un vento che nasce dalle mie parti, che odora della mia terra.
È un vento che mi assomiglia.

Di questa città detesto la pomposa arroganza che ha quando parla di caffè. Come lo sapessero fare solamente qui, come se semplicemente l’aria che qui si respira lo rendesse il più buono del mondo. Odio questo sfoggio di sfumature e nomenclature, una sorta di orgoglio tradito e perso che si aggrappa alle cose stupide per emergere, e per cosa? Per dell’acqua sporca… e io il mondo un po’ lo ho girato e sono più che certo che il caffè migliore non lo fanno qui.
Ma qui il caffè lo fanno abbastanza buono e non c’è il chiasso e la calca di certe mattine, qui c’è tranquillità. Solo il chiacchiericcio di un gruppo di mamme che prendono il caffè insieme dopo aver accompagnato i figli alla scuola qui vicino. E nemmeno la calca di odiosi vecchi, che si giocano una copia del giornale manco fossero cani randagi che litigano per un osso, e che lo impestano col loro odore di naftalina e polvere.

Qui posso svagarmi con una cosa che di questa città mi diverte. Il suo giornale. Generalmente lo sfoglio solamente, sorridendo dei titoli sensazionalistici e del tentativo di allungare la zuppa tanto da renderla trasparente come acqua di fonte. In questi quattro fogli di carta c’è tutto il voler essere metropoli rutilante di cose che accadono e stupiscono, il voyeurismo di una stampa frustrata che si abbatte sulla piccola intimità di ancor più piccole cose, come il lutto di un anziano investito o ragazzini che mentono sull’età per poter bere la sera. Ma oggi l’occasione è ghiotta. Mi concedo anche una brioche ed una spremuta d’arancia.

Il titolo principale preannuncia tutta la frustrazione di una redazione che si sente relegata alla periferia, e che non riesce a confessare a sé stessa di non avere i mezzi per fuggirne. So che qui il tono da romanzo giallo, di quelli in carta povera venduti nelle edicole, esploderà dello sforzo immane di produrre un po’ di pathos.

“Parroco brutalmente ucciso”

Pagina piena, relative foto della parrocchia luogo del delitto, foto di repertorio della polizia che fa rilievi… tutti gli ingredienti per distribuiti su una… no due pagine… no… una e mezza…. metà pagina è andata ad un negozio che offre il top di gamma sui condizionatori.
Prima di addentrarmi nella lettura immagino che questa notizia potrebbe essere il motore di parecchie chiacchere da bar, da parte di tutti coloro che in una faccia da circostanza mal celano un sorriso scioccamente tronfio dell’avere finalmente una cronaca nera quantomeno all’altezza di Padova, se non addirittura Milano.

Addento la brioche.
Un po’ di marmellata mi cola sul labbro, la catturo con i denti e la tiro dentro la bocca,
Leggo.

Si inizia con i dettagli del “tragico ritrovamento”. Il quadro viene tratteggiato con tinte fosche, quelle adatte a quando la scena è quella di un crimine violento. Quando si usano le parole “brutalmente” e “ucciso” nella stessa frase generalmente la distanza fra chi è morto e chi no è zero. Coltello bastone non si sa, si parla solamente di sangue. Quello vende di più.
Per un istante mi prende un leggero rimorso ad essere così cinico nel leggere di una morte, ma oramai sono talmente anestetizzato alla realtà che ci spacciano i giornali, da non riuscire a farmi toccare più da loro. Come da altre cose, del resto.
Inizio a sorridere. Spacciandole per “piste seguite dagli inquirenti” vengono delineati tre scenari che, una pigra occhiata alle statistiche, si presentano come più probabili. Motivi ereditari, delitto passionale, denaro. Ma non manca un accenno ad una possibile vendetta per una molestia fatta dal povero parroco. Perché si sa, va di moda accostare le parole “preti” e “pedofilia”, e le mode fanno vendere.
Dico io, ma se devi fare uno sforzo di fantasia e scrittura creativa, per tracciare possibili ipotesi, fallo bene almeno. Qui il fallimento e totale, il confino ai margini dell’impero di questo giornalista più che meritato.
Abbasso il giornale e inizio a immaginarmene uno differente.

Un parroco è di suo una persona che vede, raccoglie confidenze ed emozioni di parecchia gente. Non si può non prendere in considerazione uno scoppio d’ira, una emozione violenta non prevista, magari di una persona che non si è mai vista prima.
Immagino un uomo, che passa di lì per caso, o magari perché aveva bisogno di una chiesa fuori dagli occhi indiscreti. Perché aveva bisogno di una chiesa di periferia, piccola e poco frequentata? E soprattutto perché aveva bisogno di una chiesa?
Mi stiracchio appena sulla mia sedia col giornale chiuso davanti. Osservo il grosso cavallo di vetro resina nero che decora l’interno del bar, poi poso gli occhi sui movimenti pigri e routinari dei pesci tropicali nell’acquario che campeggia dietro il bancone e continuo in questo gioco.
Un qualsiasi luogo seminascosto serve generalmente a chi non ha troppa voglia di farsi vedere in giro, magari perché porta addosso i segni di qualcosa, o ha appena fatto qualcosa, di non eticamente condivisibile, e non vuole essere collegato a quella zona della città. Circa poi il perché avesse bisogno di una chiesa… beh…. Qual è il motivo per cui un essere umano ha bisogno di una chiesa? Per confessarsi, ovviamente. Ma lui, il nostro indiziato, cosa aveva da confessare?
Magari qualcosa di veramente brutto, forse spaventoso, e in una forma di inconfessabile attrazione era entrato in quella chiesa con la necessità forse neanche attratto dalla religione, ma dalla semplice liturgia della confessione, dalla sua ritualità, da quell’odore d’incenso che gli ricordava il suo est.
Era entrato nella chiesa ascoltando il proprio passo risuonare, lui che sapeva camminare con le ombre e sfiorava il suolo quando serviva; in questo caso voleva essere sentito, si stava annunciando.
E il prete arriva, appare colto di sorpresa. E accoglie perplesso questa richiesta portata un po’ con un sorriso cinico un po’ con l’ansia di chi avverte un vuoto dentro.
E nel confessionale il prete ascolta. Ascolta una serie di orrori più neri e profondi del mare. Impallidisce allo scorrere di una vita vissuta sotto una costellazione di sangue, all’unica luce di una totale, inarrestabile assenza di pietà. Ascolta una voce che non lascia adito ad alcun dubbio sulla realtà di questa scia di morte, che reclama la proprietà di questa manciata di male assoluto portata nel mondo.
Per lui è troppo. Impallidisce e respira con affanno. Si aggrappa al rosario ed al suo messale come fossero capi di una fune che lo trattiene dallo scivolare in un abisso. Poi, dopo il silenzio e i respiri che lo solcano nervosi, una domanda; anzi, una richiesta.

“Mi assolva, padre.” 

Il parroco vacilla, gli si blocca il respiro al suono di una voce che non ha mai concesso repliche o dinieghi nella vita. Ascolta la sua paura di scivolare all’inferno concedendo questo sacramento. Ripensa alla voce di un uomo che non domanda, ordina.

“Non posso … figliolo…“

Risponde. La sua voce quasi si spegne senza che la frase sia finita.
L’uomo esce fuori infuriato dal confessionale, sposta la tendina e guarda fisso il parroco. Sbraita cose sull’assoluzione, che a tutti viene concessa, che non può essere negata, che non deve essere negata. Ma negli occhi ha anche la cicatrice d’una offesa terribile: la aperta manifestazione che Dio, e quella sua meravigliosa invenzione che è l’inferno, facciano più paura di lui.
Il parroco ha solamente il tempo di vedere le croci ortodosse tatuate sulle nocche dell’uomo; viene trascinato fuori e battuto per terra. L’uomo gli è sopra, i suoi pugni piovono con la furia del temporale e la precisione del destino. Hanno il peso di pietre e a nulla servono le braccia tremanti del parroco incrociate a proteggere il viso. Colpo su colpo il prete smette di lamentarsi, poi di muoversi, poi di avere un viso. L’uomo ha mani callose e braccia resistenti tanto da sostenere lo sforzo del gesto di colpire tante volte da rischiare i crampi.
Poi va via, senza lasciare tracce ma prendendosene una.

Mi alzo per pagare la mia colazione e il mio quarto d’ora di relax. Guardo le mie nocche ferite e sento il peso del messale nella mia tasca destra. Lo prendo e lo sfoglio… ha schizzi di sangue un po’ dappertutto. Mi guardo in giro e vedo un angolino con un book crossing. Lo lascio li, fra un romanzo rosa ed un classico della letteratura in formato economico.
Pago il ragazzo dietro il bancone e vado via… pensando fra me e me che è una bella storia, che dovrei scriverci un racconto, forse.

Vincenzo Russo © centoParole Magazine – riproduzione riservata

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One Reply to “Il prete: un racconto”

  1. cesare ha detto:

    Il vento forte che tira sulla città, nota oltre che per la sua bellezza anche per questo elemento. Vento amato dai cittadini, che a volte spazza il cielo dalle nuvole, piulisce l’aria e porta il sereno. Vento, segno un po’ di follia, come un po’ folli, nel senso positivo, inteso come estro e fantasia, sono gli abitanti di Trieste.
    Il caffè, tradizione più che alla qualità vantata, legata alla storia di antichi locali, luoghi di appuntamento, nel tempo, per poeti, artisti e scrittori.
    La discrezione della gente al bar, paziente ad aspettare il proprio turno senza scannarsi per leggere il giornale locale, fra mamme che sorseggiano la loro tazzina, parlando fra loro, dopo aver accompagnato il figli a scuola.
    Il giornale locale, come ogni altro giornale di provincia, senza grandi notizie, che dettagliatamente si possono leggere su testate più importanti. Qui le cronache del posto, spiccie, semplici, succinte, ad eccezione di quando avviene un delitto, che prende spazio sui fogli, su più pagine, forse per il clamore che fa, mentre in centri urbani più grossi avrebbe di certo minore risonanza. Ciò anche per la morbosità della gente, specie, come per il caso citato, se il sacro si unisce al profano, in una città normalmente tranquilla, agitata solo dal vento che arriva dall’est, quel vento che la segna e la caratterizza.

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