Nel 1902, un giovane aspirante poeta, Frank Kappus, scrisse una lettera a Rainer Maria Rilke inviandogli i suoi versi. La risposta, eloquente e di rara bellezza, dichiara il senso profondo non solo della scrittura di Rilke, ma anche la maestosità della scrittura in sè come binario unico e invalicabile della propria esistenza. Il giovane poeta, dopo questa risposta, scrisse ancora a Rilke e fra i due si instaurò uno scambio epistolare di dieci lettere, pubblicato nel 1929, dopo la morte del grande poeta, in un’opera intitolata Poesie a un giovane poeta.
Parigi
17 febbraio 1903
Egregio signore,
la sua lettera mi è pervenuta solo alcuni giorni fa. Voglio ringraziarla per la sua grande e gentile fiducia. Di più credo di non poter fare. Non posso addentrarmi nella natura dei suoi versi, poiché ogni intento critico mi è troppo estraneo. Nulla tocca meno un’opera d’arte quanto i commenti critici: alla fine si tratta sempre di malintesi più o
meno felici. Le cose non sono sempre così comprensibili ed esprimibili come vorrebbero farci credere: la maggior parte degli eventi sono indescrivibili, avvengono in uno spazio inaccessibile alla parola, e più indescrivibili di tutto sono le opere d’arte, queste esistenze misteriose la cui vita perdura laddove la nostra perisce.
Premesso questo, mi permetta solo di dirle che i suoi versi non posseggono uno stile individuale, eppure mostrano i sommessi e velati segni di una personalità. L’ho avvertito chiaramente soprattutto nell’ultima poesia, “La mia anima”. Qui, qualcosa di suo vuole affiorare sotto forma di parola e melodia. E nella bella poesia “A Leopardi” emerge forse una certa affinità con quel grand’uomo solitario. Tuttavia alle poesie manca ancora una certa autonomia e indipendenza, anche all’ultima e a quella su Leopardi. La sua gentile lettera di accompagnamento non ha mancato di chiarirmi varie pecche che ho riscontrato leggendo i suoi versi e alle quali tuttavia non ero riuscito a dare un nome.
Lei domanda se i suoi versi siano buoni. Lo domanda a me, e prima l’ha domandato ad altri. Li invia alle riviste, li confronta con altre poesie, ed è turbato se taluni editori rifiutano le sue prove. Ora (poiché mi ha autorizzato a consigliarla) la prego di rinunciare a tutto questo. Lei sta guardando all’esterno, ed è proprio ciò che ora non dovrebbe fare. Nessuno può consigliarla o aiutarla, nessuno. Si interroghi sul motivo che la spinge a scrivere; capisca se esso affonda le radici nelle profondità del suo cuore, confessi a se stesso se morirebbe se le fosse impedito di scrivere. Questo, soprattutto. Si domandi, nell’ora più silenziosa della notte: devo scrivere? Scavi a fondo dentro di sé e cerchi una risposta. E se questa sarà affermativa, potrà soddisfare questa seria domanda con un forte e semplice “Io devo”, e quindi costruire la sua vita in base a tale necessità. La sua vita, finanche nel suo attimo più indifferente e misero, dovrà essere segno e testimonianza di questo impulso. Allora si avvicini alla Natura e cerchi, come fosse il primo uomo, di dire ciò che vede , ciò che vive, ciò che ama e ciò che perde. Non scriva poesie d’amore; eviti dapprima queste forme troppo facili e comuni. Esse sono le più difficili, poiché ci vuole una forza grande e pienamente matura per dare il proprio contributo laddove ci sono in abbondanza tradizioni buone e anche ottime. Eviti quindi questi temi generali e ricerchi quelli che le offre la
sua vita di tutti i giorni; descriva i suoi dispiaceri e i suoi desideri, i pensieri fugaci e la fiducia nella bellezza di qualche tipo; descriva tutto ciò con affettuosa, sommessa, umile sincerità, e usi per esprimersi le cose che ha attorno, le immagini dei suoi sogni e gli oggetti dei suoi ricordi. Se la sua vita quotidiana le sembra povera, non dia la colpa ad essa: incolpi se stesso, si dica che non è abbastanza poeta da evocarne le ricchezze, poiché per chi crea non esiste povertà né vi sono luoghi miseri e indifferenti. E anche se si trovasse in una prigione le cui pareti non lasciassero pervenire ai suoi sensi i rumori del mondo, non avrebbe comunque la sua infanzia, questa ricchezza preziosa, regale, questo scrigno di ricordi? Rivolga lì la sua attenzione. Cerchi di far emergere le sensazioni sommerse di quel vasto passato; la sua personalità diverrà più salda, la sua solitudine si amplierà e diverrà un’ombrosa abitazione chiusa al lontano rumore degli altri. E se da questo volgersi all’interno, da questo immergersi nel proprio mondo scaturiranno dei versi, allora non le verrà in mente di chiedere a nessuno se siano buoni versi. Né cercherà di interessare le riviste ai suoi lavori, perché li considererà un suo caro e naturale possesso, un frammento e una voce della sua vita. un’opera d’arte è buona se è nata da necessità. È per questa sua natura che va giudicata, e in nessun altro modo. Quindi, mio caro signore, non posso darle altro consiglio che questo: guardi dentro di sé, esplori le profondità in cui la sua vita si eleva, e in questa fonte troverà la risposta alla domanda se lei debba creare. L’accetti per quello che è, senza farsi troppe domande. Forse scoprirà che ha una vocazione da artista. allora prenda su di sé questo destino e ne porti il peso e la grandezza senza mai chiedere quale ricompensa possa ottenere dall’esterno. Poiché colui che crea deve essere un mondo in se stesso e trovare tutto dentro di sé e nella Natura a cui è legato.
Ma può darsi che dopo questa discesa in se stesso e nella sua intima solitudine lei debba rinunciare a diventare poeta (è abbastanza, come ho detto, sentire di vivere senza scrivere: allora non bisogna cimentarsi nemmeno). Ma anche allora, questa ricerca interiore che le chiedo non sarà stata invano. La sua vita da quel momento troverà comunque la propria direzione, e che sia buona, ricca e vasta, questo glielo auguro più di quanto sappia dire.
Cos’altro? Mi pare che tutto abbia avuto il suo giusto rilievo, e in fondo volevo solo consigliarle di continuare a seguire serio e tranquillo il suo sviluppo, poiché nulla lo turberà maggiormente che rivolgersi all’esterno e aspettare che l’esterno le dia le risposte che solo il suo sentire più intimo, nell’ora più quieta, le potrà forse dare.
È stato un piacere per trovare nella sua lettera il nome del professor Horacek; provo per quest’uomo adorabile e colto una grande venerazione e una gratitudine che perdura negli anni. Voglia, la prego, dirle di questo mio sentimento; è molto gentile da parte sua pensare ancora a me, e lo so apprezzare.
Le restituisco anche i versi che mi ha gentilmente affidato. E la ringrazio di nuovo per la sua grande e sincera fiducia, di cui con questa risposta onesta e in buona fede ho cercato di rendermi ancor un po’ più degno di quanto io, un estraneo, realmente non sia.
Suo devotissimo
e con tutta la simpatia
Rainer Maria Rilke
Francesca Schillaci © centoParole Magazine – riproduzione riservata