Nel mondo della fotografia, noi fotografi (e fotografe) tendiamo, tipicamente, a nasconderci nei nostri mirini. E nelle immagini che scattiamo. Molti di noi sono timidi, e preferiscono star dietro all’obiettivo, piuttosto che davanti; se assecondata, questa tendenza inizia a diventare un’approccio un po’ generale in tutto – inizia a coinvolgere ciò che scriviamo, ciò che diciamo. A volte, come pensiamo (quasi mai ciò che pensiamo), e come ci esprimiamo.
Di questo, di solito, ci rendiamo conto, e, colti dal dubbio di non star facendo bene, cerchiamo un momento di confronto. E anche d’incontro con altri. Questo momento può essere anche una sessione formativa. Un workshop. L’ultima occasione in linea temporale è stata quella con una fotografa conosciuta internazionalmente, un nome noto. Uno di quei nomi che pubblicano libri, e li vendono; che accettano di insegnare e di condividere un poco della loro conoscenza.
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Finito l’ultimo dei tre giorni d’incontro, ho già, volutamente, dimenticato tutto; e, segretamente, penso di aver desiderato di non esserci mai andato. Non sono che uno fra le centinaia di fotografi che sicuramente incontra ogni anno. Niente di speciale, quindi. Ma, dopo una serata trascorsa a vedere foto di fotografi famosi (con un po’ di analisi, però senza la spiegazione di un contesto – i consueti Cartier-Bresson, Koudelka, Kertesz; la foto di Minamata di William Eugene Smith … domandiamo: ‘Potremo avere il materiale mostrato al corso?’ – la risposta è un: ‘No’, poi corretta in un ‘qualcosa’), trascorriamo una giornata a mettere in pratica degli esercizi di tecnica interessanti, ma non seguiti o commentati dall’insegnante (esercizi in cui poi un po’ tutti fanno ciò che vogliono, senza confrontarsi). E il giorno dopo iniziamo, poi, la tradizionale revisione del portfolio. La ‘lettura della foto’, dove ti vien chiesto di commentare, da solo, le tue foto, e di spiegarle. Dunque.
L’umiltà è la cosa più importante per crescere assieme. Non importa quanto tu possa pensare di essere dotato, quanti corsi universitari tu abba fatto, quanti diplomi e certificazioni tu abbia ottenuto. Se ti presenti a chi ti ascolta convinto di sapere tutto e di distribuire sapienza, prima o poi resterai senza un pubblico. Più che in altre professioni, i mentori, nella fotografia, possono essere di valore incredibile per i fotografi che vogliono imparare. A condizione che siano disponibili a dedicare a ciascuno dei propri studenti e apprendisti lo stesso tempo; commentando, condividendo, spiegando, stimolando. Condividendo le proprie esperienze.
Curiosità e sperimentazione. Il nutrire la curiosità e lo sperimentare continuamente ti saranno più utili dell’ultimo attestato di partecipazione a un corso che hai ricevuto. E inoltre … le foto di denuncia, le foto sociali, le foto esotiche non sono più così esotiche come lo erano in passato. C’è troppa immagine, attorno a noi. E ciò significa che la storia e l’emozione non provengono più necessariamente dal ritratto del barbone che dorme avvolto dai suoi cartoni, o dal viso della bambina dell’Afghanistan. L’emozione può venire da qualsiasi cosa stia attorno a te, se hai qualcosa da raccontare – e tutti noi abbiamo qualcosa da raccontare. A volte ciò che ci manca è soprattutto la capacità di lasciarci andare e farlo, ed è in questo che il ruolo di chi ti guida nell’apprendimento è fondamentale. Se ti guida.
La tua fotocamera ti porta solo … fin là. La maggior parte dei veri professionisti, e degli insegnanti disposti a condividere davvero qualcosa con te che non sia qualche ora di tempo trascorsa in maniera distratta, non si affida più di tanto al suo equipaggiamento, e non arriva davanti ai suoi studenti con la sua Leica in bella vista. Ironicamente, sono i foto amatori a essere quelli più concentrati sulla necessità di avere nel loro (possibilmente ampio) zaino un equipaggiamento di livello qualitativo molto alto – molto più che i professionisti stessi. Forse perché i foto amatori tendono a essere persone che non vivono di fotografia, ma di altri lavori dai quali possono ricavare un margine per comprare oggetti pregiati. Così l’avere la Leica, per chi la sfoggia, è una dimostrazione di un lusso, piuttosto che un costo utile e motivato, a meno che non ti sia stata regalata da qualcuno, o che tu non l’abbia vinta a qualche prestigioso concorso fotografico. Ricordo, durante l’allestimento di una mostra, una signora che non aveva mai fatto prima fotografia; mi chiese: “Mio marito mi ha regalato questa macchina; crede che sia buona?” – risposi: “Signora, è una Leica; è sicuramente di qualità, ed è sicuramente molto costosa” – “Ah, costa tanto? Allora vuol dire che è buona. Farò belle foto. Grazie.”
Sono io stesso un foto amatore che non vive di fotografia, e mi rendo conto di aver frequentato sia maestri con la Leica (che non sempre ho apprezzato) che bravissimi fotografi dotati di attrezzatura molto meno costosa della mia. Fotografi che facevano molto, molto meglio di me, con una fotocamera in mano. Fotografi che erano molto occupati, e preoccupati più per la loro necessità di fare buone foto e lavorare bene per un cliente piuttosto che di fermarsi a leggere su Internet dell’ultima versione di quella tale applicazione di foto ritocco, di quella tale tecnologia a elevatissimo numero di pixel o del nuovo modello di Canon, Nikon, Olympus o Fuji uscito sul mercato. Nelle mani giuste, ho visto vecchie fotocamere produrre foto straordinarie.
La scuola o il corso che hai frequentato non serve a determinare la qualità del tuo lavoro. (può sì determinare dove lavori, e anche quanto guadagni, ma non cosa fai). Non ho niente contro chi proviene da, o insegna presso, un istituto d’arte di prestigio, magari negli Stati Uniti, o uno studio fotografico molto nominato di Milano o di Firenze. Semplicemente, non è ciò che personalmente m’interessa di quell’insegnante: sento più vicino a me chi mi parla delle sue esperienze – dalle prime in poi – e cerca di guidarmi e di condividere, piuttosto di chi mi descrive gli immaginari piani di un’immagine (indubbiamente ce ne sono, e ce ne saranno – dipende da che cosa, in quella foto, stai guardando) e le ripetizioni delle forme (infinite forme, in infinite ripetizioni). Di fronte a una foto, non c’è una verità: la foto è ciò che il fotografo ha voluto rappresentare ed è verità solo in un istante – nell’istante in cui tu l’hai scattata. Poi, più avanti, se avrai avuto fortuna, un critico d’arte o un insegnante di arti visive ti spiegherà, o indurrà (annuendo silenziosamente e pronunciando qualche monosillabo) un suo studente a spiegarti che, proprio in quella foto, quel bambino era triste, perché il suo papà non gli prestava attenzione mentre lui girava sulla giostra, e proprio per questo egli gli faceva, di rimando, le boccacce … oppure che quella ragazza camminava, sola, soffrendo molto, e il suo disagio interiore si vedeva, e proprio in quel momento ha visto te e la tua macchina fotografica e ha accennato un sorriso, dedicato solo a te. Eppure, solo il fotografo che avrà scattato la foto, e avrà visto l’intero contesto, potrà sapere che cosa stava succedendo attorno: forse, il disagio della ragazza era dovuto al tacco della scarpa rotto qualche passo prima.
Molto più che nel cinema, incredibilmente di più che nel teatro, e in modo particolare al giorno d’oggi, la fotografia è ciò che noi vogliamo che essa sia. Chi dice: ‘Ciò è valido nella pittura, perché nella pittura ho il tempo per riflettere e decidere ciò che voglio rappresentare’, dimentica (o tralascia di estendere la spiegazione a) qualche generazione di artisti informali e trascura anche il fatto che nella fotografia digitale abbiamo il tempo di riguardare e selezionare mille immagini in poco tempo, tutte magari scattate in una certa giornata – e scegliere quella che nel modo migliore rappresenta ciò che vogliamo, noi, evidenziare. Magari con lo scopo di vincere un premio in un concorso. O di pubblicare un nuovo libro.
L’immagine parla più della parola scritta. Eppure: non è vero. L’immagine è più forte della parola, e la storia stessa dell’immagine (le icone, create per rappresentare la divinità e per far comprendere Dio a chi non sapeva leggere e scrivere …) ce lo dice, ma ci dice anche quanto limitata essa sia stata e sia senza una spiegazione di altro genere, o prima che sia fatto un lavoro di evoluzione da pura immagine a insieme di simboli, di segni (Roland Barthes). E di studio della stessa. E ciò è iniziato, nella nostra storia, da poco – e segue molte scuole di pensiero. Con tutti i rischi che ciò comporta in termini di reale comprensione del significante, e del significato. C’è troppo parlare, quindi, attorno alla fotografia. Troppe emozioni immaginate da chi le racconta piuttosto che da chi le ha vissute, troppe letture delle foto fatte con lo scopo di riempire un aula, molto spesso (se non la maggior parte delle volte) a pagamento. E, si, forse l’unica vera foto rimasta è la foto istantanea: la Polaroid.
Niente, proprio niente, quindi, contro chi proviene da una buona scuola di fotografia e da una bella università. Solo la certezza che, provenendo da quella certa buona scuola, magari costosa, tu possa aver avuto già un certo successo in mano. E che ti sia meno facile (ma non in tutti i casi) accostarti all’uomo e alla donna comuni.
Il tuo futuro è nelle tue mani. Letteralmente. Dopo aver imparato le tecniche di base della fotografia, sei tu a decidere come e con che cosa vuoi riempire la tua inquadratura: lo fai ogni volta che prendi la tua fotocamera in mano e guardi nel mirino. Più spesso la usi, più facilmente troverai ispirazione. L’immaginazione e la costanza possono portarti avanti anche in un mondo troppo competitivo e in una situazione economica difficile. In un mondo in cui ci sono un sacco di scuse a disposizione per chi vuole giustificare il suo insuccesso. E: no, il tuo lavoro non si venderà da solo. E questo, forse, può farmi comprendere di più – e in parte accettare – perché vuoi incontrare gli altri anche se, nel difficile mestiere del condividere, sei meno portato.
Gli errori sono inevitabili. E insegnare non è facile.
Roberto Srelz © centoParole Magazine – riproduzione riservata