Anton Corbjin è decisamente uno dei miei personali punti di riferimento per la fotografia, specialmente per quanto riguarda il ritratto. Il carattere che riesce a infondere ai visi che ritrae è incredibile. Contrasti forti e monocromie di grande impatto, con uno stile che oramai sono diventati una cifra riconoscibile, quasi una firma vera e propria per cui guardi una sua foto e dici “questa è di Corbijn”, indovinando nove volte su dieci.
Ma un altro dei motivi che me lo fanno amare particolarmente è che in un momento come quello sospeso fra la fine degli anni ‘70 e l’inizio degli anni ‘80, quando il Punk e il Post Punk ti dicevano che chiunque poteva salire sul palco e fare Rock, lui prende una macchina fotografica e inizia a fotografare tutta una generazione di personaggi che hanno cambiato la musica.
Anton Corbijn, al secolo Anton Johannes Gerrit Corbijn van Willenswaard, nasce nella piccola cittadina olandese di Strijen nel 1955. All’inizio degli anni Settanta prende in mano la macchina fotografica del padre (con un flash, strumento che assolutamente non ama) e inizia a fare i suoi primi scatti. Vede in Olanda il suo primo concerto (quasi sicuramente Punk) e resta affascinato dal dinamismo di quella atmosfera. Londra in quegli anni è il luogo dove accadono le cose nella musica. Il Punk è appena deflagrato come una bomba e altrettanto rapidamente ha raso al suolo l’idea d musica “che va suonata bene” del Progressive Rock. Londra è probabilmente l’ambiente che per primo recepisce che quelle ceneri sono terreno fertile per far nascere qualcosa di veramente innovativo. E Corbijn va dove le cose succedono, lui che ama profondamente il rock e le immagini che può generare un ambiente come quello.
Nel 1979 si trasferisce a Londra proprio per poter essere “la’ dove le cose accadono nella musica”, e inizia il percorso che lo porterà, fra le altre cose, ad essere probabilmente il più conosciuto fotografo delle Rockstar, e successivamente anche degli attori. I primi probabilmente che fotografa, i più importanti come rapporto personale, sono i Joy Division. E di loro è anche la prima foto che viene acquistata e pubblicata (da New Musical Express, di cui diviene fotoreporter). Ritrae il gruppo che in poco tempo ha lasciato una traccia fondamentale dal punto di vista musicale all’interno di una metro londinese. Qualcuno, col senno di poi, ci ha voluto vedere una sorta di presagio: si vedono la parte dei Joy Division che successivamente diverranno i New Order, schiena alla fotocamera, e poco staccato da loro Ian Curtis, il cantante, che di li a pochi anni morirà suicida.
Ma non ci vedo nulla di profetico. Ci vedo solo l’estro e il talento di Corbijn, il suo gusto per un bianco e nero contrastato, emotivo e ”dark” . L’intuito per le ambientazioni non costruite ma scelte, l’idea che certi personaggi bisogna seguirli a lungo, entrare anche in quelli che sono i loro percorsi personali (non solamente fisici), vederli la notte quando i più dormono o nelle mattine in cui paiono essere assolutamente fuori posto. Con gli U2 e con i Depeche Mode inizia un sodalizio lunghissimo e tuttora fertile, fatto anche di copertine di dischi estremamente ben riuscite (‘Unforgettable Fire’ degli U2, ad esempio), e l’avventurarsi nel mondo dell’immagine in movimento con i videoclip, di cui alcuni famosissimi, come ‘Personale Jesus’ proprio dei Depeche Mode.
Dal videoclip al cinema il passo è spesso breve, e così, nel 2007, esce il suo primo, bellissimo film: Control . E non poteva non essere un film su Ian Curtis e con i suoi complessi rapporti umani, oltre che artistici. Lo gira basando la sceneggiatura sulla biografia scritta dalla moglie del leader dei Joy Division, riuscendo anche nel rimanere in equilibrio tra l’essere esageratamente didascalico e documentaristico ed una eccessiva emotività. Non ha smesso di fare cinema. Tra i suoi film segnalo soprattutto ‘The American‘ e ‘La Spia‘.
Fortunatamente per noi, continua a scattare foto. La sua cifra è rimasta intatta raffinandosi. Qualcuno dal punto di vista fotografico lo ha definito tecnicamente tradizionalista. È in effetti uno che al digitale ci è passato molto tardi. In una intervista al ‘Guardian’, nel 2005 affermava di non essersi ancora staccato dall’analogico, trovando che la possibilità (tentazione?) di controllare immediatamente il risultato di uno scatto, togliesse quel senso di sorpresa, anche tecnica, che la pellicola poteva dare. Curiosamente, però, scorporava dal suo ragionamento la post produzione e l’editing con Photoshop e simili, considerandoli come una sorta di prolunga esterna della propria camera oscura, specificando però di non considerare in alcun modo vincolante il lavoro di editing digitale, di essere pronto anche dopo un mese di lavoro a tornare completamente sui propri passi preferendo pubblicare alla fine l’originale da cui era partito. Attualmente lavora con una Hasselblad per il medio formato, e con Leica per il 35mm, servendosi comunque di focali che non superano mai i 120 mm.
A 55 anni, Corbijn vanta sei film diretti, più di sessanta videoclip, un numero interminabile di copertine che vanno da ‘Rolling Stone’ a ‘GQ’, passando per ‘Vogue’, ‘Cosmopolitan’ e altre. Ha inoltre pubblicato una marea di monografie e portfolio fotografici non necessariamente legati al mondo del Rock o del cinema. Quello che mi piace di più è un suo lavoro basato esclusivamente su Tom Waits, in cui coglie l’occasione di sfruttare una delle facce più espressive e uno dei caratteri più istrionici del panorama del rock mondiale.
La capacità di Corbijn di catturare sguardi capaci di ‘bucare’ la fotografia credo sia eguale a quella di un mostro sacro come McCurry, pur prendendo in considerazione il differente tipo di ricerca dei soggetti e la propensione dell’olandese per il bianco e nero. Ho avuto modo di vedere altre sue foto che non erano di personaggi famosi e conosciuti, ma resta, come costante, la stessa cifra.
La capacità di trarre dai ritratti espressioni non usuali, e la maestria di rendere ogni particolare del viso con un tratto di grafia con cui è scritta una imperscrutabile storia personale, rifuggendo dal patinato ma esaltando i solchi della persona. Guardo un suo ritratto di Clint Eastwood in cui un dito puntato alla telecamera e sfocato nasconde il viso, lasciando scoperti solo gli occhi, ridotti a due solchi minimali in cui la pupilla quasi non si distingue tanto è scuro e sottile lo sguardo, ma che ci ricordano che ‘Dirty Harry’ non se ne è mai andato. O guardo fra i miei vinili e ritrovo ‘Unforgettable Fire’ e il castello in rovina scovato nei pressi di Limerick, e reso etereo e sospeso nel tempo, anche testimone, forse, del cambiamento degli U2 stessi, che al tempo si avventuravano nel capitolo che avrebbe visto il loro lungo sodalizio con Brian Eno.
Anton Corbijn si è misurato con successo e confrontato con se stesso sotto ogni aspetto, sino a spingersi nell’arte grafica e nell’arte contemporanea, cogliendo il senso di qualsiasi tipo di suggestione per la vista potesse porre in essere; sempre con senso, forza, ma anche una parte di tranquilla sospensione del caos. Per me resta sempre il fotografo che ha immortalato un epoca intera della musica e che continua a farlo, senza l’esigenza del Glamour o di una patina sofisticata, che molti cercano fino al parossismo, ma che lui fa emergere nella nostra suggestione nell’ombra delle molte linee di contrasto che percorre e cattura col suo sguardo.
Vincenzo Russo © centoParole Magazine – riproduzione riservata