“Digital is not film, it is data, and it requires a new and clear set of rules” , dice Michele McNally, direttrice della fotografia per il New York Times, fotografa più volte premiata (premio Pulitzer per dirne uno) e svariate volte parte della giuria per il premio World Press Photo.
Pare un buon punto di partenza, questa frase, per fare qualche passo indietro e parlare della querelle riguardante il primo premio nella categoria “Contemporary Issues Story” prima attribuito e successivamente ritirato, con l’accusa di avere contravvenuto a quello che mi pare essere l’articolo 12 dei requisiti di ammissione in concorso, che dice:
“Il contenuto di un’immagine non deve essere modificata. Solo ritocco conforme agli standard del settore attualmente accettato è permesso. La giuria è l’arbitro ultimo di questi standard.”
L’oggetto del contendere è il reportage “La ville noir, The dark heart of Europe” dell’italiano Giovanni Troilo, un reportage atipico che ha più l’intento di essere una narrazione, un racconto – per sua stessa ammissione – che un documentario.
L’idea di prendere Charleroi, città del distretto minerario belga in prossimità di Bruxelles, come esempio di una condizione diffusa in Europa, è chiara. Il collasso dell’industria manifatturiera e mineraria della zona ha fatto emergere dei problemi di disagio e povertà, un sottobosco sempre più fitto di microcriminalità, in una situazione di perdita generale di identità.
Le foto sono bellissime, ma davvero forti e cupe. Certamente non verranno mai utilizzate dalla pro-loco di questa città belga per attrarre turisti. A me personalmente ricordano l’atmosfera di un film (peraltro belga) intitolato “Calvaire”, che attraverso il linguaggio del cinema Horror denunciava già nel 2004 un progressivo disgregarsi di una identità comune e dei valori in Belgio, a partire proprio dalle comunità che l’economia ha messo in ginocchio.
Ma torniamo alla questione World Press Photo.
Non appena attribuita la vittoria e aver pubblicato sul proprio sito le foto di Giovanni Troilo giunge l’inviperita la reazione del sindaco di Charleroi, Paul Magnette, il quale accusa Troilo di avere manipolato e falsificato la realtà, andando contro le regole etiche del fotogiornalismo, e chiede a gran voce di squalificare il fotografo italiano. WPP reagisce attivando un nucleo investigativo per dirimere la questione e in prima battuta riconferma il premio a Troilo. Poi, il caos.
In pochissimo tempo la decisione viene ribaltata, inizialmente adducendola ad un uso del fotoritocco eccessivo e contrario al codice etico del concorso che prevede, come detto sopra, un minimo ritocco conforme agli standard internazionali. Poi però cambia idea di nuovo e trova il cavillo: una foto che ritrae una scena di nudo di gruppo (modelli di un pittore che si rifà a classici fiamminghi) non è stata scattata a Charleroi ma in studio a Molenbeek (ottanta chilometri, a occhio, da Charleroi). Quindi, avendo il fotografo dichiarato il contrario, la squalifica era confermata.
Questo, stando ad una notizia pubblicata nella rubrica Lightbox del Time.
Ora, sottolineo una cosa: da nessuna parte si dice che Troilo abbia falsificato la realtà da un punto di vista fotografico e di etica foto giornalistica, da nessuna parte si dice che lui abbia falsificato la realtà sociale di Charleroi, o che abbia utilizzato in maniera esagerata il lavoro di editing violando il codice etico di WPP a riguardo; nessuno dice che la sua narrazione sia falsa, inefficace e fraudolenta.
Tutta la vicenda potrebbe apparire come la classica ricerca del pelo nell’uovo.
A questo punto mi domando se, il regolamento di ammissione ed il codice etico di WPP non siano diventate un po’ anacronistiche e non meritino una ridefinizione, considerando il fatto che l’unico peccato (in termini di regolamento) di Troilo pare essere quello di avere usato per esigenze narrative un set esterno al contesto e di non averlo specificato.
Mi riguardo le sue foto, e le apprezzo anche di più. Appare evidente che è un servizio preparato e pensato a lungo, che ha senso e pathos narrativo, che la sua storia Troilo la racconta bene, senza falsi pietismi, senza infiorettare la realtà delle cose. Le sue foto si può essere tentati di definirle artistiche, e non perché siano più belle o meno belle di altre, ma perché, credo io, abbiano quel qualcosa di evocativo che trascende la narrazione del reportage. Evito però di addentrarmi nello scivoloso terreno di cosa sia una foto artistica e se una foto possa o meno essere artistica.
Mentre preparo questo articolo mi viene in mente una persona che potrebbe darmi spunti più che interessanti sull’affaire “WPP contro Troilo”. È Massimiliano Spanu, attualmente professore e ricercatore all’Università di Trieste, nell’ambito cinema, fotografia e televisione – e persona che mi ha illuminato più di una volta sul senso dell’immagine fotografica.
Oltre a farmi notare che, molto banalmente, WPP ha avuto un comportamento arruffone che certo non gli fa fare gran figura, Massimiliano mi manifesta l’impressione che comunque il loro regolamento/codice etico abbia segnato un po’ il passo. Poi reinterpreta un filosofo a lui caro, Walter Benjamin, autore del saggio “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (testo che lui definisce fondamentale):
“Noi non viviamo più nel mondo all’epoca della sua riproducibilità tecnica, ma in quello della sua costruzione e manipolabilità digitale. Pensare ad uno scatto che riproduca naturalmente, senza mediazione, senza filtri, la realtà di fronte alla quale ci si pone mi sembra una grande ingenuità, tanto più se si considera che, come diceva Bergson (in Le due sorgenti della morale e della religione, 1932) ‘Ogni verità è un percorso tracciato attraverso la realtà’. Tracciato attraverso, non a calco di essa […]
Mi trovo, scrivendo, assolutamente d’accordo con questa affermazione.
Credo che, al di là della motivazione finale di World Press Photo per la squalifica delle foto di Giovanni Troilo racchiuse nel suo lavoro, esso sia assolutamente un gran bel reportage. Trovo che se un fotografo narra una storia, anche realizzando dei set veri e propri (sebbene esterni al contesto geografico che si vuole rappresentare), anche intervenendo in modo robusto sul lavoro di editing, lo fa in modo lecito e coerente col tempo in cui viviamo. Trovo non ci sia una perversione del senso, checché ne dica il codice etico di WPP sull’editing (estremamente nebuloso, come detto da più parti): è una narrazione corretta ed efficace, anche giornalisticamente.
A dimostrazione di questo c’è da dire che mai come quest’anno il club degli squalificati di WPP è stato così grande: oltre il venti per cento dei partecipanti, una cifra che sembra sottolineare quanto sia forse il caso di ridefinire le regole di accesso di quello che è uno dei concorsi di foto giornalismo più rappresentativi del mondo, ricordandosi che ridefinire le regole non è assolutamente ridefinire l’etica stessa. E nella conversazione con Massimiliano Spanu salta fuori una frase che mi pare perfetta per concludere:
“Hanno squalificato Troilo? Viva Troilo.”
Vincenzo Russo @ centoParole Magazine – riproduzione riservata