In questi giorni sta andando in scena, al Politeama Rossetti di Trieste, la pièce teatrale “Il Visitatore” di Éric-Emmanuel Schmitt, con la regia di Valerio Binasco.
In una società dai ritmi frenetici, tendente all’uniformità e alla superficialità, quasi priva di ogni tipo di rapporto con il prossimo e con se stessi, questo spettacolo vuole far riflettere e pensare, portando gli spettatori a meditare non solo su ciò che stanno guardando, ma anche sull’io interiore.
Lo spettacolo si svolge nel 1938, quando l’Austria viene annessa al Terzo Reich. Un ormai vecchio professor Freud (Alessandro Haber) si ritrova a dover decidere se accettare di lasciare la sua terra natia o se rischiare e rimanere. La figlia Anna (Nicoletta Robello Bracciforti) cerca di convincerlo che la scelta migliore sia quella di lasciare Vienna; purtroppo, Anna viene portata via da un ufficiale della Gestapo (Alessandro Tedeschi) per essere interrogata. Il professor Freud rimane da solo; all’improvviso riceve una visita davvero insolita: quella del Visitatore (Alessio Boni), un uomo particolare, folle, che può essere Dio, ma anche un matto. Freud si ritrova così a dover far i conti con se stesso, a riflettere, a pensare ed è proprio grazie a questo misterioso incontro che qualcosa cambia in lui.
Alessio Boni con il suo monologo, con una certa profondità di pensiero, riesce perfettamente ad entrare nell’animo delle persone, trasportandole in una dimensione superiore.
Il Visitatore – come ha ricordato lo stesso Boni durante l’incontro con il pubblico, sabato 14 marzo, al Caffè San Marco di Trieste – è un fool, un saggio, che a volte ride a volte si arrabbia, che però sta bene accanto al pianeta Freud; è una specie di satellite che gira attorno a questo grande uomo pieno di certezze, di conoscenze. Il mio personaggio, alla fine, riesce almeno a creare il dubbio del mistero in Freud.
Io mi diverto ancora adesso, dopo due anni, ad interpretare questo personaggio. Il testo è molto interessante ha una sua profondità, crea delle emozioni che sono dei sentimenti che vengono creati da una cultura. L’emozione è una cosa istintiva, animalesca; ognuno di noi ha una reazione all’emozione – qualsiasi essa sia – e non sa il perché, mentre il sentimento è qualcosa che viene creato dalla cultura che si segue, dall’insegnamento che si ha avuto, dai miti che ci sono stati raccontati a scuola, dall’educazione dei genitori. Quindi, in questo spettacolo, vengono messi a confronto due codici, gli alter ego di due massimi: il massimo dell’ateo, che è Freud e Dio, che è il massimo della fede.
Noi abbiamo dei sentimenti, perché abbiamo dei codici, perché tramite la nostra cultura e la nostra educazione, ci hanno educati a capire che cosa sia l’amore, l’odio, la saggezza, il dubbio, il mistero, l’indifferenza; sono codici su cui basiamo la nostra vita.
Alessio Boni ha poi continuato dicendo: Éric-Emmanuel Schmitt (l’autore de “Il Visitatore” n.d.s) è stato un grande studioso di teologia, nonché filosofo, e grande amante della musica classica, che ha cercato il modo di creare in scena il sentimento, l’emozione. Che non deve essere per forza tragico-drammatica, può essere anche ilare, sorprendentemente leggera, però dicendo cose profonde – come in questo spettacolo.
Infine, Boni, collegandosi a quanto aveva detto il regista Luca Ronconi qualche tempo fa, ovvero che si sta ritornando al teatro di parola, ha dichiarato: Vent’anni fa c’era una maggiore attenzione alla spettacolarizzazione della scena, che alla parola. Credo che l’uomo sia saturo di sentire idiozie, di sentire parlare delle stesse cose, dalla mattina alla sera; si è stancato. Oggi c’è bisogno di parlare di noi stessi, e per farlo ci si avvale di testi come il nostro. In questo spettacolo la scenografia è dichiarata: da una parte fari a vista, sbarre, una scenografia finta, come se fossimo in uno studio cinematografico, e dall’altra tutto nero, l’inconscio. Dichiaratamente è la parola che si scontra in scena, e incredibilmente quella parola fa spettacolo.
CentoParole Magazine ha avuto il piacere di incontrare Alessio Boni per un’intervista, che qui sotto riportiamo.
Lei ha lavorato con registi teatrali importanti come Ronconi e Strehler. Com’era il loro modo di lavorare?
Con Luca Ronconi ho fatto “Peer Gynt”; ero appena uscito dall’Accademia d’Arte Drammatica di Roma e quindi in me c’era ancora un po’ di immaturità. Mi ricordo una strepitosa analisi del testo di questo maestro straordinario, fuori dal comune: il modo in cui analizzava Ibsen in quel frangente, mi rimase impresso. Lasciava cogliere agli attori le cose, faceva leggere a ciascuno le parti e poi dava indicazioni per cercare di forgiare quel personaggio.
Con Giorgio Strehler, invece, l’analisi del testo durava tre giorni e faceva tutto lui, tutti i personaggi; lui era strabiliante, estremo, istrionico, e anche quello mi colpì. Il quarto giorno ci fece salire sul palcoscenico, pur non sapendo niente; c’era un anziano suggeritore, che suggeriva tutte le parti e noi dovevamo già avere le scarpe di scena: lui voleva il portamento – in questo caso si trattava de “L’avaro” di Molière – la camminata del Seicento, anche se eravamo in tuta; i costumi arrivavano dopo.
Era un modo di procedere d’impatto, è come se uno ti insegnasse a secco, a sei anni, come devi muovere le mani per nuotare, magari su una tavola in palestra – questo è Ronconi. La sua straordinaria analisi del testo durava anche una quindicina di giorni e dopo tu, con queste nozioni, ti buttavi in acqua e cominciavi a capire come si faceva a nuotare. Strehler, invece, ti dava un calcio e ti buttava in piscina e tu nuotavi come potevi, poi pian piano imparavi e lui, da bordo piscina, ti diceva come muoverti. La metafora è questa. Due straordinari maestri che ho avuto la fortuna di incontrare nella mia carriera.
Emergeva la triestinità di Strehler?
Sì, emergeva; emergeva questa follia straordinaria, questo vento dell’est. Mi piaceva, era molto istrionico, non stava mai fermo, aveva una personalità coinvolgente al massimo. Strehler io l’ho adorato.
Quale emozione le suscita Trieste?
Mi piace questa città, mi piace perché mi dà un senso di libertà e di non paludamento. Sento che la frontiera è vicina e che dalla frontiera può arrivare qualsiasi cosa e di fronte c’è il mare; quindi possono arrivare continue novità, mentre, magari in una città del centro Italia, ti senti un po’ contornato dall’italianità, qui questo non accade. A Trieste puoi incontrare persone di tutte le nazionalità: bosniaci, curdi, serbi, abanesi, sloveni; tutto è inglobato nella città. Qui c’è un pensiero più aperto, credo, culturalmente, e sento questo grande forte retrogusto di storia, lo avverto nel dolore di certe persone, di come rispettano certe materie e la Seconda Guerra Mondiale: qui c’è stato un campo di sterminio spaventoso. Quindi c’è questa dicotomia: c’è un senso di sana libertà diretta, precisa, che mi ricorda Conrad, le barche che vanno, viaggiano, il mare, la frontiera, i capitani di ventura che prendono di petto la situazione; ma nello stesso tempo c’è questo retaggio di dolore sotterraneo che le persone anziane se lo sfruguliano e che esce fuori molto potente, forte – ciò era molto presente anche in Strehler.
Quando vengo a Trieste è questo che sento e mi piace sempre venirci. Mi trovo bene qui; probabilmente è una delle poche città in cui anche vivrei. Noto che c’è un’attenzione alla cultura e allo studio.
Sì, qualcosa c’è, peccato che molti giovani dimostrino poco interesse per le cose culturali. Forse manca la voglia di fare…
La cultura non è darsi da fare, ma ampliare la conoscenza dell’uomo, conoscersi. Spetta a noi cittadini volerlo fare. Ad esempio, venire a teatro è un impegno abbastanza limitato: non ti porta via tanto tempo. Più persone ci sono a teatro, più la cultura continuerà ad esserci. Questo vale, naturalmente, anche per la scultura, per la pittura, per ogni forma d’arte.
Non so come siano le cose nelle altre città, ma qui a Trieste è difficile trovare persone giovani che vadano a teatro o a vedere le mostre. Manca in loro vitalità, interesse…
A Trieste mi sembra che ci sia una certa attenzione per la cultura, mentre in alcune città viene vista come una cosa di poca importanza. Non credo perciò che si tratti di un problema di Trieste, bensì è un problema culturale e storico dei giovani d’oggi, che hanno un po’ tutto. Io penso che la generazione passata – da un certo punto di vista – sia stata più fortunata di noi, perché c’era in loro una forte speranza: la speranza che finisse la guerra.
Avevano una voglia di ricostruire tutto, perché, a causa della guerra, c’era stata una distruzione terrificante, estrema; la guerra sacrifica vite e beni per un fine assolutamente inutile – a mio avviso. Quindi, avevano questo afflato, non vedevano l’ora di ripartire, di mettere su famiglia, di cercare un lavoro. C’era l’opportunità di fare tutto, la speranza in tutto e per tutto. Oggi, invece, si ha tutto e non si ha più questo entusiasmo.
Ora siamo contornati da iPad, computer, e mille altre cose che prima non c’erano. Se vogliamo vedere una mostra che c’è a Parigi, possiamo vederla direttamente dai nostri telefonini, senza doverci muovere; ma non è la stessa cosa vedere dei quadri su di uno schermo.
Forse siamo diventati più pigri…
Sì, c’è questa sorta di pigrizia che è sempre stagnante dentro ad un essere umano. È lì, e appena la lasci andare ti prende, ti contagia. È una specie di virus, una specie di malattia che, prima diventa quasi una cosa “trendy” e poi contagia tutti. Perciò, bisognerebbe scalfire tutto quanto, pensare con il proprio cervello, fare voli pindarici: per coloro che amano l’arte, trovare la voglia di andare a Mantova perché c’è la mostra del libro, o ad Alba perché c’è quella di Casorati; ma la stessa cosa vale per qualsiasi altro interesse. Manca questa voglia di mettersi in gioco che c’era una volta…
Sì, perché prima c’era grande curiosità. Non c’era il telefonino, non c’era nulla, quindi se volevi vedere un quadro dovevi per forza andarlo a vedere.
Probabilmente, una volta, si ascoltava e si osservava, mentre oggi si sente e si vede…
Questo, perché è il secolo dell’immagine e si tende ad ascoltare pochissimo.
Cosa si ricorda della miniserie televisiva “Rebecca la prima moglie”, che è stata girata anche a Trieste, dove lei interpretava Maxim de Winter?
A Trieste ho fatto due film, uno con Margarethe von Trotta sulla violenza sulle donne, che si chiama “La fuga di Teresa” e “Rebecca la prima moglie” con la regia di Riccardo Milani, dove c’era la grande e straordinaria Mariangela Melato e anche Omero Antonutti.
Una meraviglia, quel periodo, si stava bene, non c’era quel malcontento che c’è ora, c’era uno spirito di libertà. In più c’era la grande Melato che ti aiutava in tante cose; anche Omero era straordinario.
In quel periodo, ho potuto conoscere meglio la Melato perché stavamo nello stesso hotel e quindi si andava a cena insieme, mentre Antonutti l’ho frequentato di meno perché, alla sera, ritornava a casa sua – è di Trieste.
Mariangela Melato era un persona con la quale non è stato solo un onore lavorarci assieme, ma anche averla accanto come donna. A mio avviso, era una grande donna, prima che una grande attrice. Aveva un forte senso dell’ironia, aveva una curiosità istrionica, un’incredibile professionalità; a volte sembrava ancora una bambina, perché aveva quella curiosità di scoprire, di vedere, che hanno i bambini. La curiosità del voler conoscere le cose, mi ha sempre intrigato, come la curiosità di scoprire l’altro, di scoprire l’estero, il non italico.
A proposito di estero, è curioso vedere come noi occidentali siamo alla continua ricerca di certezze, mentre per gli orientali l’unica certezza è l’incertezza. Cosa mi dice a riguardo?
Forse una bella via di mezzo non sarebbe male (ride), però questo pensiero degli orientali un po’ mi piace, perché in Occidente, fin da quando sei bambino, ti chiedono cosa farai da grande. Padre David Maria Turoldo – che insegnava teologia – diceva: “In cinquant’anni che ho insegnato, nessuno mai mi ha risposto che vuole diventare un uomo”, tutti vogliono diventare architetti, giornalisti, attori. In questa nostra società, fin da piccolo, devi sapere qual è il tuo ruolo, dove ti devi barcamenare, ed è una sorta di spada di Damocle spaventosa.
L’anno sabbatico – che nacque nel Medio Oriente – era un anno di interruzione dal lavoro; al settimo anno, di regola, ti fermavi per un anno, per vedere se avevi ancora voglia di fare lo stesso mestiere o se invece preferivi fare qualcos’altro. In quell’anno contemplavi la vita, leggevi, studiavi, viaggiavi, poi ritornavi e decidevi cosa fare. Oggi, da noi, è impossibile prospettare persino il mese sabbatico, però questi troppi impegni ci stanno un po’ dilaniando, ci stiamo dimenticando un po’ di noi stessi.
Qui mi collego a “Il Visitatore”, lo spettacolo che stiamo portando adesso in scena, la cui valenza ha avuto forza e presa sul pubblico, perché, per un’ora e quaranta, ti fa pensare a te stesso. È una sorta di terapia di gruppo. Difficilmente le persone parlano di cose così profonde – a meno che non vadano in analisi o siano dei teologi, o dei filosofi – mentre la gente che viene a vedere questo spettacolo ne viene rapita. In tutte le città abbiamo riscontrato una grande attenzione da parte del pubblico e tanti applausi finali. Tutto ciò mi ha fatto molto piacere, perché alla genesi della scelta di un testo, non sai mai come andrà a finire.
Ne “Il Visitatore”, com’è interpretare il ruolo di questo suo particolare e misterioso personaggio?
Mi diverte, perché è tutto e niente. È partito da un’assurdità, da una luce, da un’entità, da un non tangibile, ed è arrivato ad un clochard, un folle, un poetico, un saggio, un fanciullo, un papà, un fool che pungola il suo Re Lear. È diventato interessante, ha preso piede grazie alla vostra energia; ci siamo immersi insieme nella fantasia dei bambini, che mi ha permesso di fare qualsiasi movenza, anche perché il personaggio che interpreto potrebbe essere un pazzo, un Dio, qualsiasi cosa, tranne quando parla e s’arrabbia, e allora lì riporta tutti a terra, fa pensare. Interessante questo personaggio.
Mi descriva con qualche aggettivo il teatro e il cinema.
Teatro: macromimica, cinema: micromimica. Il teatro è dell’attore, il cinema è del regista.
Il teatro è energia tramandata, un filo rosso che si tramanda tra palcoscenico e pubblico, quindi carne viva, gente viva; il cinema è tra un attore e una macchina da presa, costruita dall’uomo, però pur sempre una macchina.
E cosa preferisce?
È una domanda che mi pongono spesso. Io adoro fare cinema come adoro fare teatro, come adoro fare radiodrammi e letture; penso che bisogna esercitarsi in tutto. In teatro c’è una difficoltà superiore rispetto al cinema. Questo non vuol dire che il cinema lo fai con facilità: anche nel cinema devi impegnarti al cento per cento, come in teatro. Nel cinema la macchina da presa fa la radiografia dei tuoi sentimenti e se non ci sei dentro appieno, si sente che fingi. Quindi io parlo del lavoro dell’attore come un’evoluzione dei grandi trapezisti al circo: se tu sbagli di appena due centimetri la presa, cadi; quindi devi essere concentratissimo, devi essere ‘atleticissimamente’ preparato e devi essere pronto per fare quella presa, per fare quell’evoluzione. La differenza è che in teatro, se cadi, non c’è la rete, mentre nel cinema c’è, quindi ogni cosa la puoi rifare. Il cinema ti lascia un po’ più di serenità, mentre in teatro devi avere più completezza, più coscienza di te stesso, più serenità interiore; devi avere la comprensione di quest’arte, devi avere la potenzialità di poterlo fare dall’inizio alla fine. In cinema puoi fare anche una scena di trenta secondi, o di un minuto, o al massimo, quando è lunga lunga, di tre minuti e poi tutto finisce. Rarissimamente si gira una scena di tre minuti e quindi la concentrazione è a pezzetti; è difficile perché tutto è segmentato. Ecco, per certi versi, è più difficile il cinema che il teatro. A teatro nel momento in cui parti, vada come vada, arrivi alla fine.
A teatro c’è un filo logico…
C’è un filo logico-drammaturgico, quindi se devi piangere, come faccio io nel mio monologo, ti viene quasi spontaneo, non devi sforzarti. Nel cinema magari quel monologo là, è la prima cosa che fai, e la partenza è l’ultima che giri, per via della location, perciò non arrivi con tutto il bagaglio necessario.
Quando feci “La meglio gioventù”, mi ricordo che la prima settimana girai la morte, mi buttai dal balcone. Quindi, in quei quattro giorni, dovevo sapere tutto quello che avevo fatto precedentemente; se fossi arrivato lì dopo sei mesi di girato, con tutto il bagaglio bello preparato, sarebbe stato diverso. Invece devi essere pronto, lo devi fare subito. Il cinema è così, il teatro è un’altra cosa. Il teatro ha questo filo logico che ti aiuta drammaturgicamente, il cinema no.
Quanto è importante per lei mettersi in gioco?
È sempre importantissimo, fondamentale, anche se delle volte vorrei fermarmi, riposarmi un po’. Poi, alla fine, vince quella voglia di mettersi in gioco, che non è ambizione, o meglio può essere anche ambizione, ma è un’ambizione sana – come lo è qualsiasi forma di velleità, se è sana, se non straborda. Io detesto tutto ciò che è estremismo, da qualsiasi punto di vista: politico, religioso, qualsiasi.
Un giusto equilibrio sarebbe perfetto…
Sì, però una sana voglia di scoprirsi, di mettersi in gioco, di buttarsi è interessante. Mi piace chi ci prova, chi tenta, e se anche alla fine non raggiunge ciò che vuole, pazienza, almeno ci ha provato; non ha nulla da rimproverarsi. Mi piace che ci si butti.
Un consiglio che dà ai giovani?
Rubo sempre una frase di Einstein che è interessante: “Cercate di diventare persone di valore nel campo che scegliete – qualsiasi esso sia – e non per forza di successo”. Quando diventi una persona di valore, cambia il mondo e tutti avranno stima di te. È più importante avere la stima, che il successo. Se fai bene il tuo lavoro e le persone hanno stima di te, allora hai fatto centro – indipendentemente dal lavoro che fai.
Ringrazio Alessio Boni per la stimolante ed interessante chiacchierata.
Nadia Pastorcich © centoParole Magazine – riproduzione riservata
Perfetta, questa intervista mi pare perfetta! Alessio Boni ha risposto alle domande mirate ed intelligenti di Nadia con la massima naturalezza e ci ha dato una lezione di vita attrverso quello che prova e fa un attore. Del resto anche noi siamo tutti degli attori sul palcoscenico del nostro quotiodiano. Ci troviamo e ci muoviamo non sulle tavole di un palcoscenico, ma in più vasti scenari. Non recitiamo a soggetto, ma interpretiamo eventi sempre nuovi. Ebbene, Boni ci dice indirettamente come muoverci, in quel essere diretti e spontanei come lo è un interprete. Interessante ciò che dice sulla culura odierna a differenza di quella di una volta, condizionata com’è da una certa nostra comodità e pigrizia, nonché da tutti i mezzi tecnologici che ci agevolano, ma pure ci limitano negli spostamenti, nel dover cercare di persona. Oggi basta premere pochi tasti di un pc. per conoscere tutto, ma non è mai come una conoscenza tangibile e reale.
Interssante pure quando Boni parla di Trieste e della triestinità, del confine, del mare, del dolore che la città ha passato e vissuto. Belle le sue parole per Strehler e la metafora su come lui si comportasse verso coloro che dovevano imparare: un calcio nel sedere ed in piscina, poi arrangiarsi da soli a nuotare! E poi altre cose. Un parlare immediato e diretto quello di Boni. Forse una delle migliori interviste fatte da Nadia! Complimenti!