“Per entrare in terapia intensiva, ogni volta devi indossare un camice sterile, usa e getta, di carta. Devi mettere i sottoscarpa, per evitare che la polvere e lo sporco delle suole entrino in reparto. E devi lavarti le mani, con un sapone antibatterico. Se hai la febbre, non puoi entrare. Se sei raffreddato o hai la tosse, anche se è leggera, ti sconsigliano comunque di entrare: hai la responsabilità della vita di tutti gli altri bambini. Li potresti, involontariamente, contagiare. Se non ce la fai a star fuori, allora usi una mascherina di carta.
Nello spogliatoio dei genitori si sente sempre il rumore del condizionamento, c’è sempre odore di disinfettante. Mamme e papà sono a testa bassa; un ‘ciao’, mormorato, ciascuno è solo. Troppi pensieri sui propri figli, pochi sorrisi. Nell’aria dello spogliatoio, la tensione. E l’ansia provata nell’attesa di entrare, di sapere come sta tuo figlio. La voglia di rivedere il tuo bambino, che ha appena scoperto come si respira; di stare con lui. Col tempo, ci si abitua ai momenti passati in quell’anticamera ches epara il mondo esterno da quello interno; quando sei là, ti sembra di vivere in due mondi paralleli: dentro, fuori. Nessuno, fuori, riesce a capire che cosa c’è dentro.
Nel reparto di terapia intensiva. Neonatale.
Tutto più silenzioso. La luce è soffusa, o spenta, tutto è morbido. Ovattato. L’odore particolare del disinfettante, mescolato a quello di tutti gli altri medicinali usati nel reparto; l’odore che mi sarebbe rimasto per sempre in mente. Spaesato, incontravo i medici lungo il corridoio, vedevo le infermiere e il personale dell’ospedale, non sapevo che cosa fare. Anche trovandomi di fronte a questa sensazione di estraneità – intruso, in un mondo lontano, non mio – mi rendevo conto di quanto distanti fossero i primi momenti che stavo trascorrendo con mio figlio da quello che mi ero atteso, immaginato, e che il genitore di un bambino nato da un parto normale poteva vivere. Entravo in un ambiente protetto, nel quale i bambini stavano chiusi nel guscio che li difendeva dall’esterno. Avvolti dalle loro culle di vetro. Con questo distacco fisico, con l’impossibilità di prenderlo in braccio e di toccarlo subito, ti era presentato tuo figlio: l’infermiera, di solito quella con più esperienza – non sempre la più anziana in età – prendeva la tua anima per mano, e ti spiegava. Parlandoti del bambino che aveva i sensori attaccati sul petto e sulle piccole braccia. Ti accompagnava nei tuoi primi passi spiegandoti, con il supporto del medico, a che cosa le strumentazioni accanto all’incubatore servivano, che cos’erano gli indicatori e i segnali acustici – tante luci, rumori, tutti diversi, quelli dei loro cuori elettronici che battevano assieme a quello di tuo figlio e lo aiutavano a vivere. E poi, le cannule di alimentazione: nella bocca, nel naso. Gli apparati di ausilio respiratorio, il rilevatore della pressione del sangue. La flebo. In quel momento non lo sai ancora, ma anche quei rumori, quei soffi, quei segnali regolari, sordi, acuti,diventeranno parte della tua vita, ti accompagneranno per sempre.
Ci era consentito di appendere un pupazzetto, sull’incubatore di Stefano; il primo giorno mi permisero di toccargli le manine. Metti la tua mano, vicino a quella del tuo bambino, attraverso le finestrelle che danno accesso alla parte interna dell’incubatore, e ti rendi conto di quanto piccolo è lui. Capisci quanto grande sei tu, là fuori – nel tuo universo pieno di cose tante volte piccole – di fronte a lui lì dentro, nel suo mondo che inizia e finisce con la sua coperta. Vorresti vivere per sempre. Per lui.
da ‘Per Due Volte’: storia di vita. (Luglio Editore , Alessandro e Roberta Morel con Roberto Srelz)