“La sterilità della nostra generazione è un sentimento di incompiutezza”. (Mauro Covacich)
Un armadio a cassetti che racchiude una storia diversa dall’altra, rendendo comunicanti i piccoli vani tra di loro. È la storia del nostro secolo che Mauro Covacich è riuscito a incastrare dentro “La Sposa”, un romanzo a racconti, un flusso di idee concretizzate sia attraverso fatti accaduti realmente e resi narrabili, sia attraverso momenti inventati dall’autore per trasmettere un’immagine della nostra realtà più vicina. La voce narrante viene lasciata ad ogni personaggio come scettro del proprio ego, una sorta di volontà di autodichiarazione che Covacich riesce a concedere a i suoi personaggi interrotti e incastrati tra una società beffarda e la propria autotutela, la paura di non essere mai realizzati. L’incapacità di cogliere un gesto autentico.
L’opera parte non a caso con la storia di Pippa Bacca, l’artista che insieme a Silvia Moro nel 2008 intraprese un viaggio in autostop verso i paesi dell’est bellico, vestita da sposa. Un messaggio di solidarietà e coraggio, accompagnato da un sano senso di sarcasmo portò “la sposa” a “unirsi in matrimonio” con ogni persona, famiglia, ragazzi in viaggio, camionisti che accoglievano il suo richiamo al bordo di una strada. La condivisione è stato il simbolo dell’unione attraverso cui Pippa Bacca ha emancipato un messaggio di sobrietà, che poteva rivelarsi autentico soltanto con mezzi provocatori come una sposa vestita in bianco seduta ai lati di un’autostrada. Mauro Covacich raggomitola in poche pagine un’idea dei pensieri della sposa che su un furgoncino incappa nell’uomo, l’unico del suo viaggio d’amore, che la stuprerà e la ucciderà, cogliendo soltanto la possibilità di sporcare il messaggio di un vestito bianco.
“Soggezione e scandalo, gli stessi sentimenti provocati dalla nudità del Cristo sulla croce. Lei e Silvia esporranno i loro abiti, il Vestito Bianco intriso della bontà del genere umano, tutte le buone azioni di cittadini appartenenti a paesi furiosi e sanguinari, un lungo gesto collettivo per cui sia lecito sperare in un futuro con livelli più bassi di testosterone. Il Vestito Bianco è una scelta di vita, perché artisti non si nasce, né si diventa: l’arte è semplicemente la missione per cui si è deciso di prendere i voti.”(p.13)
Una scrittura impegnata, quella di Mauro Covacich, si rivela intensa e a tratti brutale nella capacità di narrare momenti e persone senza la volontà di raccontare. Lo scopo de “La Sposa” è quello di agglomerare più racconti tratti da opere passate dell’autore per creare un quadro evidente della propria realtà di fronte a cui lo scrittore e tutti i lettori sono chiamati a riflettersi.
Lo scontento sempre più palpabile nella generazione dei nuovi padri viene proposto da Covacich con un’esperienza in prima persona, dove il capitolo prende il titolo di Sterilità, il senso primo di un sentire diventato comune, evidente, quasi inevitabile, in cui Covacich riflette sulla sua condizione di “possibile padre” che ha scelto di non avere figli, mentre gioca a frisbee con suo nipote. L’imposizione dei figli da parte delle madri non come conseguenza naturale del proprio esistere, bensì come un’autentica opera d’arte di fronte alla quale qualunque essere umano deve prostrarsi in un atto di venerazione. I non sterili “non donano al mondo nuovi esseri umani, né donano ai figli la vita, ma lasciano segni, esibiscono trofei, declinano in una forma più ambigua quella che resta a tutti gli effetti pura e semplice volontà di affermazione.”(p.22) Dall’altra, però, la consapevolezza di non aver voluto figli, fa nascere un sentimento di nostalgia, in cui anche il narratore si riconosce come “essere sterile” che ha paura di invecchiare. La sterilità si concretizza nella paura che “fare figli significa smettere di essere figli”, significa togliere libertà alla propria emancipazione, ad un progetto di carriera, alla volontà di realizzarsi che, in questa società, sembra essere possibile soltanto con una prole.
La sterilità quindi “non è altro che un sentimento di incompiutezza, la forma più concreta di un concetto evanescente” afferma Covacich, in cui ogni uomo dell’ultimo secolo è direttamente coinvolto, sia per chi ritiene onnipotente il gesto generoso della riproduzione, quando di generoso non ha nulla, poiché “riprodursi non è né buono, né cattivo. Non siamo noi a riprodurre la vita, ma è la vita che si riproduce attraverso i nostri corpi. Di tutto questo i genitori ne erano consapevoli fino a qualche generazione fa…. E nessuno si illudeva che procreare potesse essere un segno di distinzione.”(p.23), sia per chi dal canto suo ha deciso di concentrare ogni forma di energia sulla propria individualità, restandone comunque incompleto.
Affianco al tema centrale della sterilità, Mauro Covacich propone il suo opposto, la maternità, scegliendo il caso di Anna Maria Franzoni, madre diventata un personaggio pubblico dopo la morte di suo figlio che di fronte a tutte le donne che dall’alto della loro eleganza elargivano commetti e opinioni su chi fosse il colpevole, lei si definiva innocente. Covacich riesce a narrare i flussi di pensieri di un determinato momento, seguendo un filo coerente tra il caso Franzoni che lui stesso è stato chiamato a seguire durante il suo lavoro di giornalista, e la capacità di leggere i dettagli della gente. Ne sorge una scrittura quasi psicologica, intensa, dove l’autore si rivela impegnato ad osservare una società senza farsi notare. Madri che uccidono figli o che semplicemente li abbandonano in un cassonetto. Madri che si proclamano paladine del proprio utero, altre che sentono il proprio corpo e il piccolo feto che inizia a crescere, ma se ne devono liberare. La ruota degli esposti, la dolcissima femminilità di una donna che aspetta una telefonata, un aborto spontaneo mentre il marito accompagna un uomo ad uccidere un essere umano non ben definibile nell’oscurità della notte, che neanche a farlo apposta si rivela essere una donna che quella stessa notte sta partorendo da sola il suo bambino.
Storie intrecciate in una rete di conflitti interiori, storie che anche se diverse nei termini tra di loro si confermano identiche nella forma, ovvero nel problema di base che ossessiona la generazione del nostro secolo: l’insoddisfazione. Tutto questo diventa denuncia all’interno de “La Sposa”, in cui Mauro Covacich è riuscito con grande abilità a rendere ogni storia uno specchio per ogni lettore di fronte a cui, per quanto risulti scomodo, diventa inevitabile specchiarsi. Questo è il sistema che Covacich sceglie di effettuare, ovvero partire da un problema per iniziare a scrivere e porre il lettore nelle condizioni di intraprendere insieme a lui un percorso di conoscenza.
Tra tutti i capitoli de “La Sposa”, infatti, ce ne sono alcuni dedicati a eventi specifici della sua vita, dove lui stesso si chiama da solo a riflettere sulla propria condizione di essere umano inserito in una società che spesso ha ingoiato, come per gli altri, la sua capacità di essere umile. È il caso di Ogni giorno che passa è un quadro che appendo, la storia di una serata a casa di amici a guardare il Festival di Sanremo. Leggeri, liberi, senza pensieri. La condivisione della serata si è focalizzata sulla canzone di Alessandro Bono per la considerata banalità del testo. Covacich dichiara nel racconto stesso e nell’intervista di aver peccato di superbia per non aver colto, seppur in una circostanza gioviale come quella di una serata a casa di amici/conoscenti, la drammaticità di quel testo di canzone che, in pochi versi, raccontava la consapevolezza di un uomo che sta per morire e si aggrappa alla vita in ogni giorno che riesce ancora a godere. Alessandro Bono è morto di AIDS nel 1994 e pochi si ricordano di lui come cantautore. Covacich propone così la sua autodenuncia, una sorta di processo a se stesso in cui non lascia spazio a giustificazioni, ma si mette al pari di tutti i suoi personaggi cercando di imprimere sul foglio come simbolo di una memoria, l’importanza di restare umili anche quando sembra andare tutto bene: “È quando siamo sicuri di noi che non ci accorgiamo più di quello che ci sta attorno,” dice Covacich “infatti stimo moltissimo le persone complessate perché fra tutte sono le poche che riescono a cogliere ogni dettaglio delle situazioni. È una questione di sensibilità.”
Covacich dimostra una volontà, quasi una necessità, di presentare al mondo delle persone che sono state rese dei personaggi dai mass media, in tutta la loro quotidianità. Dietro ogni madre, dietro l’ennesimo attentato di Minemaker, dietro papa Wojtyla, dietro un’artista che gira in autostop vestita da sposa non c’è altro che un uomo in tutta la sua carnalità, la sua essenzialità di essere umano che segue un processo vitale uguale a tutti gli altri, dall’alzarsi al mattino e andare a lavorare, fino a tornare a casa e sedersi sul divano con la sua famiglia a seguire e commentare le notizie del telegiornale ascoltando se stesso in quegli attentati, facendo finta di niente. Fare una scelta di vita per diventare pontefice e temere di aver perso la fede per un desiderio di carnalità, il segnale più evidente della nostra umanità. Tutti personaggi che le nostre menti hanno etichettato come sublimi, cartoline ultraterrene, faticando a credere che in ognuna di esse potesse esistere lo stesso processo di cose che c’è ogni giorno nelle nostre vite.
Covacich accompagna il lettore anche in questa direzione, in un percorso di riflessione e umiltà che obbliga, però, l’autoanalisi e la consapevolezza del nostro tempo, la nostra società composta da noi e da chi, come noi, ha contribuito a creare in maniera maggiore o minore un’incapacità di osservare l’evidenza della nostra autodistruzione. Una sorta di deficienza che ci appartiene come marchio di riconoscimento, ma di cui non vogliamo saperne niente. “La Sposa” è questo atto di coraggio.
Francesca Schillaci © centoParole Magazine – riproduzione riservata