FRANKYE HI-NRG MC: Fight! Intervista a.

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Frankye HINRG MC - Naima TriesteAl tempo, collaboravo, con molto impegno e passione, alla programmazione di una radio locale. Radio Fragola. 1991. Era (ed è tuttora anche se con uno spirito diverso) una radio comunitaria, nata, in mezzo ad un fiorire di aperture al mondo, più o meno autogestite, all’interno dell’ex OPP di Trieste –  l’ex manicomio, tanto per capire. Al tempo non si usava il termine ‘radio comunitaria’, da poco coniato dalla famigerata legge Mammì: si diceva ‘radio libera’. E in tutto quel nascere di cose che l’operato di Basaglia aveva portato a fiorire, nello spirito dell’aprire al mondo uno spazio chiuso e fuori dal mondo stesso, di portare cose fertili e innovative là dove campeggiava la scritta “la verità è rivoluzionaria”, una radio non poteva non proporre musica “altra”.

E negli anni Novanta esplodeva il Rap italiano. E non era quello stentato e scimmiottante una brutta America da Sit-Com, come quello di Jovanotti (noto ora che il correttore ortografico di word non me lo corregge… sigh…), ma era quello dei Run DMC, dei Naughty by Nature, dei Beastie Boys.

E Frankie hi-nrg mc era alla testa di questa ondata di nuovo, che fra gli altri comprendeva anche le varie “posse” da centro sociale (Onda Rossa Posse, Isola Posse All Stars …).
Nel 1991 inizia a circolare il primo singolo del ventunenne Frankye Hi-Nrg MC, “Fight da Faida. E per me, come per parecchi, a Radio Fragola fu una deflagrazione.

È senza troppi dubbi il più grosso esponente del Rap italiano, con una scrittura del testo curatissima e raffinata che apparentemente fa a pugni col linguaggio diretto (a volte in modo strumentale ed artefatto) di molti altri. Ha oramai una ventennale carriera, trascorsa fra musica e video making e fotografia – riuscendo a passare senza snaturarsi (tra i pochi) attraverso San Remo.

Per cui, approfittando della sua presenza per un DJ set misto concerto qui da noi (al Naima club), lo contatto per una intervista telefonica. Lo chiamo allora con l’incipit di “Fight Da Faida” in testa:

Padre contro figlio
Fratello su fratello
Partoriti in un avello
Come carne da macello

Mi risponde mentre è in viaggio: telefono ed auricolare (chissà perché, lo immagino su una macchina blu). Riascoltandomi, mi scopro chiacchierone insopportabile.

Ciao Frankie.. innanzi tutto grazie per la disponibilità.

Figurati.

Come appassionato della prima ora del Rap italiano, devo confessarti che quando uscì il tuo singolo “Fight da Faida” restai folgorato. E di recente l’ho riascoltata, in parallelo col tuo ultimo album “Essere Umani”. Cosa è cambiato tra quello che è l’inizio del tuo percorso e il punto in cui sei ora?

Beh, il mondo intorno ci è cambiato in varia maniera, e il mondo dentro di pari passo. Nel senso che “Fight da Faida” l’ho scritto che avevo ventun anni, ventidue, e ora ne ho quarantacinque, quindi evidentemente si raggiunge la rivoluzione Copernicana del “crescere”, che investe tanto la persona quanto la società, il sistema. In quasi un quarto di secolo di cose ne sono cambiate tante. Ho scritto una canzone sulla mafia prima che due paladini dell’antimafia fossero trucidati pare con la complicità dello Stato stesso, cosa che fra l’altro ipotizzo nella stessa canzone, il fatto che lo Stato possa essere connivente con la mafia. Cosa è cambiato?

È cambiato che i due paladini sono stati trucidati e due settimane fa il presidente della Repubblica è stato chiamato a testimoniare in materia di questa cosa. È cambiato che quando ho iniziato a scrivere, a fare Rap in italiano, l’Italia era al centro di una posizione che vedeva la magistratura al timone di questo grande cambiamento, la politica sull’orlo del naufragio. Oggi siamo più o meno nella stessa posizione, con la differenza che la magistratura ora è sull’orlo del naufragio e la politica è ritornata al posto di comando. È cambiata la mia maniera di guardare le cose. In “Fight da Faida” e in “Quelli che benpensano” la prospettiva era quella che dal singolo, dall’individuo, guardo all’esterno, guardo fuori e indico agli altri individui quelli che sono i terreni comuni, paludosi e pieni di sabbie mobili in cui è pericoloso avventurarsi; in “Essere Umani” indico quel che nel mio essere umano, all’interno del mio essere umano, riconosco come terreno paludoso e di difficile avventura, sperando che altri possano guardare dentro di sé e scoprirlo. Una cosa che avevo fatto con “Autodafé”, solo che adesso è diventata un album intero. Metto l’individuo al centro. Mentre prima mettevo la società davanti un indice accusatorio, oggi metto l’individuo al centro con l’occhio che lo osserva, che in un certo senso lo giudica, e lo fa con grande pietà. Questo, è cambiato. Oltre ad Internet.

 

 

Ovviamente.

Eh. Internet ha cambiato un po’ tutto, e in modo epocale. Stupefacente… Come l’’essere riusciti ad atterrare su una cometa.

A volte rifletto sul fatto che Internet abbia anche creato una grandissima ridondanza di informazioni. Come fotografo, ad esempio – e tiro fuori la fotografia perché ti so ben più che pratico di essa – le immagini sono una infinità. Una formidabile possibilità di accogliere stimoli, ma anche di essere sepolti di immagini. Se io volessi fare una foto di un luogo celebre, sarei in difficoltà a creare una immagine comunicativa e nuova, perché sono a disposizione di tutti migliaia di scatti fatti da ogni singola posizione. Senti che ci possa essere lo stesso problema per la musica?

Penso di si. Il problema della ridondanza è notevole, ma la cosa interessante è quella che hai detto tu. Tu come fotografo produci una immagine della tua Piazza Unità, e dici: “Ma cosa aggiunge rispetto alle migliaia di immagini che ci sono di Piazza Unità?” Aggiungi il tuo punto di vista, che sarà necessariamente unico. Simile, forse per alcuni versi e per semplicità assimilabile ad altri, ma assolutamente unico. Perché solo tu quel giorno e in quel momento e da quel punto di vista inquadrerai quella cosa con quella ampiezza di visione. Il problema è che siccome ci sono tante immagini di Piazza dell’Unità si è portati a sceglierne una che le riassuma tutte. E deve essere solo quella. E si cerca un’unica immagine, una unica fonte. Io lo chiamo il problema della pizzeria… in cui trovi un menù da dodici pagine e finisci per chiedere una margherita. Magari ne vuoi una completamente diversa. Con gli sfilacci di cavallo, per dirne una, ma d fronte a dodici pagine di menù in cui cercare la pizza che incorpori gli ingredienti che vuoi te ne verrai fuori con la cosa più semplice. Quindi, se da Internet usufruirai di quella specifica immagine, questo causerà un problema.

Perché?

Perché se usi una sola immagine corri il rischio di fruire di una sola immagine, errata, artefatta, da cui con Photoshop saranno stati tolti via dei dettagli. Una versione distorta della verità, una verità non vera, che diventa vera solamente perché diffusa. Questo è il problema di Internet, ovvero ricorrere a generiche verità, vere in quanto diffuse e non perché reali. Poi si può discutere di cosa sia vero e molte altre cose. Molte. Il fatto che moltissime persone utilizzando i Social Network si indignino, e creino dei movimenti di opinione basandosi su dei sentito dire e riportando la formula “ho sentito dire che”, la dice lunga sulla sensibilità del pubblico nei confronti dell’informazione, della notizia, sulla realtà in generale, e sulla attendibilità delle fonti di informazione. Prima provenivano da poche fonti e si accettava la situazione così com’era. Ora che sono moltissime, si deve accettare il fatto che ci siano ottime probabilità che non siano vere.
Tanto per continuare col parallelo con la fotografia, nello specifico la fotografia digitale, si arriva ad un problema di selezione, di cernita, che è quello che accade tra scatto e post produzione, per cercare immagini che abbiano senso. “Fight da Faida” era un Rap con parole scelte basandosi sulla nostra realtà, sociale e tradizionale. La scelta di inserire alla fine “sittifimmine” la contestualizzava perfettamente.

Certo… una filastrocca popolare siciliana del Settecento, in effetti.

Ed in effetti per identificarla ho dovuto chiedere a mio padre, che è trapanese, se la conosceva.

Mi sa che si sarà sentito un po’ bambino!

E mi sa proprio di sì!

Ed oltre tutto era la prima volta che sentivo parlare in una canzone di mafia come fenomeno globale.

Esatto. Un po’ prima di Saviano usavo il termine “Gomorra”, comunicavo quello di cui mi ero accorto come “diversamente meridionale”, ovvero che mafia, camorra non erano per nulla confinate nelle regioni del sud, ma che erano ramificate, Network ancora più forti nelle regioni non tradizionalmente legate a quel tipo di cultura.

Verissimo.

E quello che dicevi sul lavoro di cernita delle foto, scattare mille immagini e selezionarne solo dieci perché quelle comunicano e descrivono con precisione. Così come quando scrivo un mio testo. Uso molte parole, ne tiro fuori davvero tante ma alla fine scelgo solo quelle che descrivono bene la sensazione, l’immagine che voglio tratteggiare. Tra l’altro ho uno stile di scrittura fatto molto di immagini, di quadri apparentemente slegati fra di loro, un po’ come succede negli Storyboard. Con il tempo, mi sono accorto di questa cosa e ho iniziato a prestare una specifica attenzione a questo stile di costruzione dei testi. E la cernita io la faccio dal punto di vista linguistico. Tiro fuori la maggior quantità possibile di sinonimi per una parola che descriva una specifica situazione, fino a che non riesco a trovare quella che incorpori almeno tre specifici significati, in maniera da avere due se non tre livelli di lettura della stessa frase.

Perché è importante anche quello. Non dare una lettura lineare delle proprie immagini, dei propri testi, ma consentire alle persone di poter avere una lettura bidimensionale, se non tridimensionale sul fronte dei sensi e del significato. Se ad esempio “Pedala” in una lettura superficiale è evidentemente una canzone che parla di bicicletta, di leggi della fisica e di ciclismo tout court, ad una lettura più approfondita parla di società, parla di politica, parla della relazione tra individuo e sistema. E questa è una cosca che per me indispensabile quando scrivo un testo. Non riuscirei mai a scrivere una cosa che significa esattamente solo quello che sembra significa… sai che palle? Preferirei scrivere le barzellette del cucciolone!

Viene in mente Mishima, che scriveva poesia nel giapponese tradizionale a ideogrammi, per poter avere differenti livelli di lettura, differenti poesie nello stesso testo. La ricerca del linguaggio mi ha sempre colpito nelle tue canzoni, anche per la scelta di sfuggire sia alle semplificazione del Pop di quegli anni sia ai radicalismi di parecchie “Posse”. Anche la scena Rap attuale pare affollata di stereotipi troppo americaneggianti e da un linguaggio diretto “da strada” un po’ banale.

Sì, paradossalmente c’era molta più affezione per i cantautori, per quel tipo di scuola narrativa, in passato che adesso, dove, son d’accordo con te, c’è una maggiore ricerca dell’effetto. E ti dirò, fatta qualche eccezione dove cito un altro “grande vecchio”, tra virgolette, come Caparezza, molto bravo a mescolare contenuto, forma ironia in una gran miscela, ci sono pochi bravi, ma la maggioranza tende più alla battuta ad effetto, al facile appeal che si può avere nei confronti dei giovanissimi, in cui vince la descrizione di situazioni banalmente trasgressive. Tipo: faccio del Rap che non è un gran che, per un tipo di ascoltatore che si possa riconoscere nella banalità delle vicende e per la mediocrità con la quale sono espresse. C’è una diffusa tendenza a far questo, non solo nella musica ma in un po’ tutte le arti.

Banali come le barzellette del cucciolone.

Si, e ti dirò che se in passato la bravura pagava, più bravo eri più successo eri, più impossibile da delimitare eri, maggiore era il tuo valore. Oggi invece sembra il contrario. È necessario fare delle cose che possano essere facilmente emulabili. In maniera che il pubblico si riconosca in te e ti stimi. Perché se ti vede più bravo di lui, si sente trattato come un ignorante, un cretino, anche se non lo è né l’uno né l’altro… ma resta comunque meglio potersi sentire alla pari con i propri idoli. Per poter dire: “Guarda, è come me, ma lui ce l’ha fatta. Bravo. Lo supporto”. Dall’altra parte si dice: “Guarda, quello è più bravo di me, ma è come quei professoroni che usano i paroloni.”

Oggi parlare sgrammaticato paga. Se no sembra che tu voglia fare il superiore, quando invece cerchi di dare qualcosa che tiri un po’ più su gli altri, perché da su si vede meglio l’orizzonte e più si è più lontano si vede. Più piccolo sei più angusto sarà il luogo da dove osservi il mondo. Oltretutto c’è questa diffusa tendenza a credere che meno si spende più è “figo”. Se mi garantisci pari qualità e spendi di meno, certo che lo è, ma alla qualità sembra non guardare più nessuno.

Il valore effettivo dell’idea, perso di vista?

Certo. Ci sono ovviamente delle nobili eccezioni, come il belga Stromae, che secondo me è un artista fantastico, e fa grande successo nonostante proponga temi con multipli livelli di interpretazione, a volte anche scabrosi e provocatori, con un’immagine aggressiva che fa a pugni con la sua puerile semplicità, basi estremamente elaborate nonostante risultino immediate. Ma è una eccezione. In generale è come a Napoli, dicono: “è tutto fischi e botte al muro”, come a dire una cosa fragorosa ma che costa due lire, con poca sostanza. “Non capisco ma mi adeguo”, come diceva Maurizio Ferrini.

Una cosa che di te ho molto apprezzato è la capacità di mantenerti equidistante dai radicalismi di quegli anni da un lato, e dall’altro da un certo tipo di Pop Rap becero, pur riuscendo ad arrivare anche a questi, perché questo è alla fine comunicare.

La musica deve avere questo obiettivo. È troppo facile ricavarsi una nicchia per poi dire le cose che il pubblico si aspetta di sentirsi dire. Se io iniziassi a fare canzoni, ad esempio, esplicitamente anticlericali o al contrario di carattere ecclesiastico, sceglierei un pubblico che o odia la chiesa o la ama. A me piace poter parlare agli uni o agli altri, suggerendo un argomento intermedio che possa mettere in crisi gli uni e gli altri. Che quantomeno li faccia scontrare, che li faccia trovare un punti di sessione comune. Quello per me è l’obiettivo importante di chiunque faccia comunicazione.

Senti, cambiano radicalmente argomento pur rimanendo sulla musica. È stato più piacevole, sia musicalmente che umanamente, aver lavorato con Beastie Boys o Run DMC?

Ahha., dura a dirsi.. Sono state frequentazioni talmente leggere, con loro e sono stati sempre estremamente gentili e disponibili. La metto al contrario. Uno che ho frequentato ma con cui non ho mai collaborato è Michael Franti, che resta sempre uno dei migliori esempi di umanità applicata che abbia mai conosciuto.

Subito dopo ci salutiamo, sta guidando e ha in programma un’altra intervista telefonica. Mi metto a trascrivere ed elaborare questa chiacchierata, che un istante dopo la chiusura del telefono mi lascia con una serie di “Perché non gli ho chiesto questo!”… tant’è. Comunque tanta roba. Interessate. Istruttiva.

 

Vincenzo Russo © centoParole Magazine – riproduzione riservata

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