In un mondo ormai multietnico ci si interroga sempre maggiormente sull’importanza della fotografia per la scoperta e conoscenza di mondi lontani.
Un esempio significativo può esser illustrato dalle prime fotografie del Giappone che non soltanto costituiscono un souvenir di viaggio, in realtà queste immagini segneranno la concezione del Giappone agli occhi occidentali.La collezione dei musei civici triestini fungono a tale scopo.
Con l’apertura dei mercati e lo sviluppo di rotte commerciali tra Occidente e Oriente venne a formarsi un’interesse morboso verso le arti e i souvenir dei paesi esotici.
I primi contatti tra Europei e Impero del sol levante risalgono al 1543 attraverso lo sbarco sull’isola di Tanigashima, dei viaggiatori portoghesi sul suolo nipponico. Ben presto giunsero anche missionari gesuiti guidati da Francesco Saverio, in un primo momento sia i viaggiatori che i missionari cattolici furono accolti con un’eccezionale ospitalità ed ebbero un notevole successo. I nuovi arrivati trovarono davanti a sé un paese sconvolto da disordini e da guerre civili, sfruttarono tale momento d’instabilità per diffondere il credo cristiano. Ma prima della fine del secolo, tale successo, unito all’esclusività dottrinale del cristianesimo, alle nuove conquiste portoghesi, spagnole, olandesi nelle Filippine e nella penisola Malay, suscitarono nello shogunate Tocugawa timori d’insurrezioni interne e dominazione straniera.
Una serie di editti di esclusione culminarono con il divieto di professare la religione cristiana e con l’espulsione del popolo iberico nel 1639. Da tale momento i rapporti con il Giappone saranno concessi solamente ai mercanti Olandesi, ai quali, per ben due secoli, fu concesso di operare in un piccolo porto sull’isola di Deshima, nella baia di Nagasaki se pur con ristrette limitazioni. Inizia per il Giappone un periodo storico di completa chiusura denominato periodo Edo(1615-1868), fino alla restaurazione Meiji. L’apertura diplomatica e commerciale del Giappone avvenuta tramite il commodoro americano Matthew Perry il 31 Marzo 1854, fece si che, l’anno seguente lo stato del sol levante sottoscrisse trattati commerciali con Russia, Gran Bretagna, Stati Uniti, Francia. In realtà, la fotografia era già nota al popolo giapponese, prima di aprirsi in modo massiccio al commercio estero: le prime macchine fotografiche vennero importate dall’emporio commerciale olandese di Deshima, allora unica porta di accesso, prima al 1843. Già in questi primi anni la fotografia venne divulgata con competenza tecnica-scientifica dal 1853 grazie agli insegnamenti da alcuni medici olandesi che non solo fecero conoscere al popolo giapponese la medicina occidentale ma anche divulgarono il nuovo medium.
La corsa all’estremo oriente coinvolge anche la città di Trieste, infatti con le fregate e corvette della Marina austriaca impegnate a circumnavigare il globo, le navi che salpavano da Trieste e vi ritornavano cariche di merci, souvenir, idee e impressioni di terre lontane, da levante e oltre levante fino all’estremo Oriente.
Tra i primi fotografi occidentali comparsi nelle terre del “Sol Levante” possiamo trovare due vie di lettura del paese: la prima indaga, con compiacimento, ai risultati della modernizzazione del territorio e alle sue innovazioni; la seconda indaga con una fotografia di viaggio documentario cercando di restituire l’immagine di un Altro Oriente che va scomparendo sotto l’incombenza occidentale. Tali fotografi si concentrano nel paese tra il 1860 e il 1910, e proprio loro sono i protagonisti della fototeca, le sezioni sono state realizzate grazie al collezionismo privato (Maria Piacere, Vittorino Pizzarello, Luciano Cosso) e confluite nelle raccolte dell’istituto Triestino. Le fotografie qui prese in esame, consistono in immagini stereoscopiche, carte-de-visite e cartoline.
Non tutti i nomi dei fotografi sono giunti fino a noi, ma la figura più emblematica presente nella collezione è sicuramente il professionista austriaco Wilhelm J. Burger (1844-1920).
Probabilmente è a causa del suo breve soggiorno nel paese (meno di 7 mesi) che le immagini di Burger sul Giappone sono piuttosto rare sul mercato. Inoltre egli di solito produsse grandi formati, invece queste fotografie sono per la maggior parte stereoscopiche, forse una tale carenza di formati maggiori, può giustificarsi dall’uso del fotografo di lastre asciutte al tannino preparate però precedentemente la partenza, a Vienna, ciò potrebbe aver pregiudicato il la qualità del medium, costringendo Burger ad affidarsi a tecniche differenti. Nelle collezioni conservate nella fototeca triestina l’opera di Burger consiste in carte-de-visite incollate su un supporto secondario arancione, dove vengono indicate le informazioni riguardanti i soggetti e i luoghi di realizzazione. I soggetti rappresentati in queste immagini suggeriscono un Giappone maturato nella nostra idea Occidentale: vengono ritratte giovani donne, samurai, attori, artigiani in semplici atteggiamenti su sfondi monocromi o costruiti con pochi e semplici elementi decorativi. Tutte le fotografie catalogate presentano una caratteristica peculiare: hanno un’aurea fluttuante richiamante le xilografie ukiyo-e (immagine fluttuante), il richiamo avviene proprio nei temi trattati con paesaggi cittadini, ritratti femminili, ritratti degli attori kabuki .La carte-de-visite “Un Yakonin giapponese e i suoi servitori” introduce un’essenziale nota distintiva di tali fotografie: la loro colorazione.
Il tratto più caratteristico delle fotografie all’albumina giapponesi è la colorazione delle carte che rendevano l’immagine ancora più vicina al mondo percepito. L’assenza del cromatismo nelle fotografie ottocentesche costituiva l’unico vero limite di tali rappresentazioni, le quali avevano comunque permesso la copia della realtà; si può quindi immaginare lo stupore degli acquirenti europei di Album contenenti tali rappresentazioni.
L’idea di colorare le stampe fu importata in Giappone da Felice Beato il quale la sperimentò precedentemente ad Istambul già bel 1855. A Yokoama Beato legò la sua carriera con l’acquerellista inglese Carles Wirgman (1832-1891), a quest’ultimo si deve l’utilizzo e la massimizzazione delle capacità coloristiche degli artisti autoctoni. Legati all’esperienza cromatica delle stampe xilografiche e l’inchiostratura delle matrici dei katagami rendevano gli artisti giapponesi perfetti per questo minuzioso compito. A tutto ciò va aggiunta la constatazione che i coloristi giapponesi impiegavano una media di 6 ore solo per applicare un singolo colore, la settorializzazione produttiva permise notevoli risparmio di tempo. I colori più utilizzati richiamavano anch’essi alla tradizione artistica con i blu di Prussia, il giallo di Cambogia (tra l’arancione e il giallo intenso), il vermiglione (tra l’arancione e il rosso porpora).La verosimiglianza dei colori rispetto all’immagine rappresentata fu massima fino a quando fu progressivamente soppiantata da una visione pittorica nella seconda metà del 1870.
Anche se queste immagini sono state catturate, inizialmente, per soddisfare la curiosità Occidentale plasmando un’idea utopica del Giappone fino ai giorni nostri, testimoniano un dialogo culturale tra stereotipi e fraintendimenti. Queste immagini affascinano tutt’oggi, i manufatti conservati nel Museo, chiarificano i rapporti tra Trieste e Giappone, trasportando con sé, non solo l’idea di un mondo archetipo e inaccessibile, ma anche la vera essenza del paese nipponico.
Barbara Leone © centoParole Magazine – riproduzione riservata
Barbara Leone nasce a Trieste, laureata in Scienze dei Beni Culturali, iscritta al corso magistrale di Storia dell’arte all’Università di Udine; oltre la lettura i suoi interessi lambiscono gli ambiti della storia dell’arte contemporanea, della fotografia e del mondo culturale nipponico sia passato che presente.