Perché una gita a Lodi in una domenica un po’ bigia?
Perché c’è il “Festival della Fotografia Etica”, l’occasione di visitare un borgo medievale attorno a cui si è sviluppata una città tranquilla che ci accoglie con un tappeto di foglie rosse e gialle su cui Silvia ed io camminiamo per recarci nella zona del centro, iscriverci alla mostra e iniziare a visitare quanti più spazi espositivi possibili.
Tanta, tanta roba ed a un prezzo tutto sommato davvero accessibile. Sette Euro per tredici aree espositive, che ospitano talvolta un solo fotografo e in altri casi più d’uno, raccolti in uno spazio tematico preciso e ben organizzato. Oltretutto gli spazi che ospitano le esposizioni sono davvero belli, da corti di palazzi storici a chiese sconsacrate. Tutto, già al primo impatto, appare come organizzato in modo davvero ottimo. Il programma è davvero ricco e visto il tempo a disposizione ci tocca fare un po’ di selezione; ed è un peccato, perché appaiono tutti di grandi interesse, ed i nomi sono promettenti.
Mano a mano che ci addentriamo nel percorso che ci siamo organizzati inizio a farmi qualche domanda sulla fotografia etica. Cosa sia, quale sia il suo senso… ed altre cose ancora. Ethos è la radice greca, ovvero codice, costume, comportamento. La capacità di discernere quali siano i comportamenti, i costumi, giusti o sbagliati. In soldoni direi che questa è la base di partenza del ragionamento: un po’ oltre il reportage, quindi, non solo un mostrare e diffondere ciò che nel mondo accade al di là di una cronaca sospesa dal giudizio. Credo quindi che la fotografia “etica” dovrebbe avere non solo il compito di portare alla luce storie, ma di caratterizzarle del tentativo di darci gli strumenti di definire cosa sia giusto o cosa non lo sia.
”Poi, la fotografia su carta da lettere fu persino troppo facile da fare. Per cui, un mucchio di falliti dei vari mestieri, come li chiamava Nadar, vi si buttarono a pesce. Letteralmente, chi non sapeva fare niente, si mise a fare il fotografo. poi, peggio del peggio, chi non sapeva nemmeno fare il fotografo si mise ad insegnare a fare il fotografo! Poi, peggio ancora, chi non sapeva nemmeno insegnare a fare il fotografo si mise a fare il critico fotografico!” (Ando Gilardi)
Il primo spazio che abbiamo scelto è quello dedicato al fotoreportage “South Africa’s post apartheid youth”, di Krisanne Johnson; fotografa che ha preso un premio “World Press Photo of the Year” – non poco, direi. Sono i suoi una serie di scatti sui giovani di una generazione nata immediatamente dopo la fine dell’Apartheid. Bianchi e neri marcati e contrastati, che ritraggono una spaccatura sociale ancora fortemente presente (e non potrebbe essere altrimenti, dopo solamente vent’anni). Sono delle foto oggettivamente molto belle, che però non mi colpiscono particolarmente; sono un bianco e nero che mi piace molto, che esteticamente risuona in me, ma c’è qualcosa che mi sfugge e non capisco cosa sia. Forse la sensazione che, se private della didascalia che racconta situazione e contesto, perdano d’importanza.
Proseguo e m’interrogo ancora sul perché di quella sensazione. Forse le mie aspettative sono eccessive? Forse, c’è la necessità di qualcosa di più forte, nell’immediato, per venire incontro ai miei presupposti sul tipo di fotografia che avrei incontrato qui a Lodi? Forse si. Mi ci vorrà un po’ per rivalutare ed apprezzare a pieno queste foto ben distribuite anche come ordine di esposizione. Un percorso attraverso una generazione nuova che si fa strada e costruisce proprie mode, che si confronta con le proprie tradizioni, in un meltin’ pot a tutt’oggi difficile – amalgama difficile fra bianchi e neri, tra quotidianità quasi borghese, piccoli momenti di vita, la costruzione di una moda ed uno stile propri per definirsi, e quartieri ghetto governati da Gang violente. La prima cosa che capisco però immediatamente è che per questo tipo di reportage il fotografo deve entrare fisicamente in certe realtà. Una foto ritrae dei ragazzi che acquistano una pistola e immediatamente mi viene in mente Capa, che insegue a tal punto le sue storie da morire saltando per aria su una mina in Indocina. Un fotoreporter rischia, a volte, grosso; troppo – e a ogni costo?
Li vicino, dentro e attorno ad una chiesa sconsacrata si apre lo spazio tematico dedicato alla violenza sulle donne nel mondo. Il primo impatto (‘impatto’ è la parola migliore) è con il reportage di Meeri Koutaniemi “Taken”. Questa ventiseienne (giovane!) Lappone ha avuto la forza di andare a fotografare i passi e le espressioni della pratica (tradizione) della mutilazione genitale femminile in Africa. Anche qui, è un mettersi in gioco. Si va a fotografare una pratica illegale (anche se largamente diffusa e profondamente aggrappata alla tradizione e alla cultura di molti luoghi), che di sicuro nessuno ha gran voglia di pubblicizzare troppo, specialmente ad una persona che solo a guardare di che colore è qualifichi immediatamente come estraneo. Ciononostante le foto ci sono, e sono davvero forti, come preannunciato dal foglio in formato A4 che avverte il pubblico della presenza di foto “che potrebbero urtare la sensibilità di qualcuno”. Ci mancherebbe che non la urtassero: le foto sono un lucido e assolutamente straziante momento di paura, privazione di libertà, dolore lancinante. Eppure non sono semplicemente un Reality Horror didascalico e Voyeuristico. C’è una evidente partecipazione, in questi bianchi e neri Low Key. Rivelata dall’attenzione per volti, sguardi e gesti. Dettagli che narrano e che superano la necessità di un commento od una descrizione. ‘Questo è quello che ho visto, quello che mi ha colpito, che ho attraversato con rispetto. Ora ognuno percorra queste immagini’ – pare dire l’autrice implicitamente.
Il secondo momento di questo spazio tematico ci fa scendere in una piccola cripta sotterranea. dove in coerenza con il tema precedente, qui si rimane un po’ fuori vista, ad affrontare un percorso che ci mette faccia a faccia con donne sfigurate dall’acido, tra India e Pakistan. ‘In/Visible’, si chiama questa delicata carrellata di sguardi e dettagli, questa volta a colori. Niente bianco e nero, forse perché al di là del dramma, parliamo di una terra in cui anche solamente le vesti esplodono in una quantità di colori da cui questa porzione di oriente non sembra potere prescindere. L’autrice è l’italo-tedesca Ann-Christine Woehrl. Sono stampe che fanno parte del più elaborato percorso di un libro da lei pubblicato, e se quel che mi dice questa porzione di immagini, credo che la fotografa si sia mossa con straordinaria delicatezza in n tema che era facilissimo banalizzare. Qui non si può oltretutto non prescindere dal mostrare le cicatrici, forse anche per poter dare alle protagoniste reali di questi scatti il modo di mostrarsi al mondo attraverso il velo di un obiettivo, superando paure e vergogne che le avvolgono le poche volte che si avventurano alla luce del sole.
Si riemerge, turbati, da questo percorso, e si entra all’interno di un altro piccolo orrore, stavolta più domestico e consumistico, che in qualche modo traccia una specie di traiettoria Alfa-Omega che parte da quel che abbiamo finora visto per arrivare al termine di un ragionamento. La danese Laerke Posselt fa un viaggio più intimo e apparentemente più innocuo… anche se a ben pensarci pesa come lo stigma orrendo della infibulazione, il rituale della preparazione e della educazione delle piccole Miss dei concorsi di bellezza per bambine. ‘Beautiful Child’, si chiama questa serie di scatti.
Ritratti in close up, o ambientati, di queste due bambine statunitensi di due anni di età, che vengono agghindate, plasmate, addobbate con ciglia finte, denti finti, spray abbronzanti ed atteggiamenti ammiccanti che non possono, a chi osserva, non far sorgere l’eco d’orrore della pedofilia. Pelli lucide come porcellana senza che Photoshop possa averci messo piede… e famiglie convinte di sviluppare e accrescere sicurezza ed autostima in bambine di cui la fotografa riesce a evidenziare la infinita solitudine. Una tristezza in abito alla Shirley Temple che emerge dai colori volutamente saturi usati per raccontare un’altra sottile ed invisibile forma di controllo e omologazione, tanto per ricordarci che il primato del rispetto della donna non è così scontato risieda in un’Occidente cattolico.
E via così nel nostro giro… Pochi scatti fatti, ma molti osservati e vissuti, in certi casi tanto che sfiora l’idea della sindrome di Stendhal… anche se razionalmente è più empatia, inevitabile a volte. Incontriamo gli scatti di Olivia Arthur, dal titolo “Jeddah diary”. Qui si entra ad esplorare l’interno della bolla di isolamento e loghi riservati delle donne saudite, tra piscine private da mura altissime e grottesche alternanze di anticonformismo e integralistici abaya che le avvolgono. Dice l’autrice: “In alcune occasioni ho fatto delle fotografie alle ragazze ed in seguito mi è stato chiesto di non mostrare la loro identità. Allora ho fatto delle piccole stampe e le ho rifotografate lasciando che il flash riflettesse ed oscurasse parzialmente i loro volti. Mi hanno detto: ‘È fantastico, ma non riusciresti a mostrare un po’ di più i suoi occhi così che la gente possa vedere quanto sia bella?”. Le foto qui sfuggono all’esigenza di essere necessariamente belle. O forse proprio non sono delle belle foto. Di certo il risultato è quello di spiazzare e concentrare maggiormente l’attenzione sulla storia. Una dorata segregazione in cui le cose paiono mutare con un desiderio di apparire che cresce piano.
Proseguiamo verso la prossima sezione, “I just want to dunk” di Jan Grarup. È questa, alla fine, una storia di sport. Ma di sport vero. Essere ragazze, e voler giocare a basket in una Somalia devastata dalla guerra e dove l’integralismo islamico ed Al Qaeda sono ben presenti, può costare la vita. E queste ragazze insistono. A dribblare le minacce di morte che a volte vengono dall’interno della famiglia stessa, a nascondere l’equipaggiamento per giocare sul fondo della borsa, ad andare a giocare in campi con spalti e mura tanto sforacchiati dai proiettili che oramai un muro ridotto così, visto in televisione, ci fa pensare quasi automaticamente all’Africa, e a quel paese. Storie di sport e di sportive vere. Che ridanno un senso ad una parola che oramai ci fa pensare solamente alla parola “sponsor”. E qui, resto davvero colpito .È forse l’unica sezione di mostra dove mi dimentico della pur ottima qualità artistica della foto: il messaggio mi arriva completamente dentro, e lo faccio mio. Solo per un istante penso a quanto bianco e nero io stia vedendo in questa rassegna e resto sospeso, sospeso nella domanda se sia un artifizio per cercare di enfatizzare un pathos che oggettivamente il fotografo ha mal catturato, o semplicemente una propensione verso un linguaggio espressivo che renda al meglio le emozioni provate ad essere li di persona.
Usciamo e dopo avere respirato un po’ ci avventuriamo nel microcosmo familiare di Marc Asmin. “Uncle Charlie”. Qui rimpiango che non si sia riusciti ad assistere al percorso guidato dell’autore, perché le foto fanno parte di un progetto di foto e narrazione e le didascalie estratte dal libro sono fantastiche. Parlano in assoluta autonomia, con forza e vigore, così come i suoi interni familiari (di una famiglia a volte, anzi spesso, infastidita dal suo raccogliere foto). Foto e scrittura in equilibrio e indipendenza. Mi colpisce molto questo reportage intimo fatto di luci taglienti che creano orizzonti in interni bui di una casa che pare volersi aprire poco agli estranei. Mi vien da pensare che se si dovesse fotografare una immagine di Lansdale dovrebbe essere così. Sguardi stanchi e distratti che a volte si incendiano di rabbia, abbandono, tatuaggi, pistole, malattia… e affetti. Mi sento rincuorato nel verificare che, sì, c’è un mondo da esplorare ovunque tu posi il tuo sguardo, fosse anche casa tua… è necessario solamente saper guardare e andare oltre il vedere.
Attraverso una Lodi che si rivela un po’ più borghese, bella, all’interno delle strette vie del centro – fino alla sezione che ospita i premiati del “World Report Award”, il premio italiano per il foto giornalismo. Incontriamo gli scatti di uno dei tre vincitori, Majid Saedi e la sua splendida serie “Life in War”, focalizzata sulla quotidianità sospesa dei cittadini dell’Afghanistan (paese dove lui, iraniano, ha vissuto per quattro anni). Visi, piccoli e grandi drammi, tracce di guerra che ospitano giochi di ragazzi e le nuvole del cielo afghano. Le nuvole sono un colpo basso… le amo particolarmente e qui, nel suo bianco e nero corposo e denso, le rende spesse, restituendomi la sensazione di un cielo che è diverso dal mio e che una volta nella vita vorrei poter vedere. E finisco per innamorarmi di queste foto, che alla fine restano le mie preferite in assoluto.
Cambiamo stanza ed arriviamo nella piccola ma intensissima sezione dello “Short Story Award”, intitolata “Child-witches of Kinshasa”, di Gwenn Dubourthoumieur. Sette foto che partono, nella scheda di presentazione, con questa introduzione: “Tra i 20000 e i 50000 bambini vivono nelle strade di Kinshasa. Organizzati in gang, sopravvivono grazie al furto e alla prostituzione. Più dei due terzi sono cacciati dalle loro case col pretesto di essere bambini stregoni e quindi responsabili di tutte le disgrazie della famiglia (morte, disoccupazione, malattia, etc.). “
Sette foto sette, talmente intense che quella decido di scegliere per questo articolo – racconto, che dir si voglia – è la meno forte. Eppure se guardate lo sguardo del bambino capite tutto. Essere su un luogo e sospendere l’orrore, raccoglierlo nello sguardo per far partire azioni concrete. Mi domando qui se avrei mai la forza per fare lavori del genere… e non ne sono gran che sicuro. Emozione – e anche qui senza scadere nell’inutile ricerca di un pugno deliberato allo stomaco dello spettatore. Qua già la realtà tira eccellentemente di Boxe; da sé, senza bisogno di aiuti.
L’ultima serie di foto premiate è alla fine quella che mi, che ci colpisce meno. Pur con tutta una serie di spunti di cronaca che colpiscono. Sono gli scatti dello spagnolo Oriol Segon Torra. “Young Patriots” è il racconto di una settimana nel campo estivo paramilitare di Mogyorod, in Ungheria, dove ogni estate centinaia di bambini e ragazzi vengono sottoposti ad un duro addestramento militare a tutti gli effetti, spinti dal fascino della vita militare o spediti lì da genitori con uno spirito fortemente nazionalistico. Foto a colori di bambini o poco più a cui vengono fatti imbracciare fucili, per esser poi sottoposti a pesanti addestramenti e ad attacchi simulati in mezzo al gas lacrimogeno. E devo confessare che al di là di figurarmi una realtà che marcia così energicamente verso un nazionalismo spinto sulle gambe delle sue nuove generazioni, ed in una nazione così vicina a me, non mi resta molto degli sguardi un po’ fuori posto di questi bambini che dovrebbero giocare e non marciare.
Tante altre cose sarebbero da visitare. Ma tempo non ne abbiamo gran che. Partiamo con però parecchie sensazioni. Oscillo ancora; pesa di più la qualità di una foto, o l’importanza della storia narrata?
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“Non fotografare gli straccioni, i senza lavoro, gli affamati. Non fotografare le prostitute, i mendicanti sui gradini delle chiese, i pensionati sulle panchine solitarie che aspettano la morte come un treno nella notte.
Non fotografare i neri umiliati, i giovani vittime della droga, gli alcolizzati che dormono i loro orribili sogni. La società gli ha già preso tutto, non prendergli anche la fotografia.
Non fotografare chi ha le manette ai polsi, quelli messi con le spalle al muro, quelli con le braccia alzate, perché non possono respingerti. Non fotografare il suicida, l’omicida e la sua vittima. Non fotografare l’imputato dietro le sbarre, chi entra o esce di prigione, il condannato che va verso il patibolo.
Non fotografare il carceriere, il giudice e nessuno che indossi una toga o una divisa. Hanno già sopportato la violenza, non aggiungere la tua. Loro debbono usare la violenza, tu puoi farne a meno.
Non fotografare il malato di mente, il paralitico, i gobbi e gli storpi. Lascia in pace chi arranca con le stampelle e chi si ostina a salutare militarmente con l’eroico moncherino.
Non ritrarre un uomo solo perché la sua testa è troppo grossa, o troppo piccola, o in qualche modo deforme. Non perseguitare con il flash la ragazza sfigurata dall’incidente, la vecchia mascherata dalle rughe, l’attrice imbruttita dal tempo. Per loro gli specchi sono un incubo, non aggiungervi le tue fotografie.
Non fotografare la madre dell’assassino, e nemmeno quella della vittima. Non fotografare i figli di chi ha ucciso l’amante e nemmeno gli orfani dell’amante. Non fotografare chi subì ingiuria: la ragazza violentata, il bambino percosso. Le peggiori infamie fotografiche si commettono nel nome del “diritto all’informazione”.
Se è davvero l’umana solidarietà quella che ti conduce a visitare l’ospizio dei vecchi, il manicomio, il carcere, provalo lasciando a casa la macchina fotografica.
Non fotografare chi fotografa: può darsi che soddisfi solo un bisogno naturale.
Come giudicheremmo un pittore in costume Bohemien seduto con pennelli, tavolozza e cavalletto a fare un bel quadro davanti alla gabbia del condannato all’ergastolo, all’impiccato che dondola, alla puttana che trema di freddo, a un corpo lacerato che affiora dalle rovine?
Perchè presumi che il costume da freelance, una borsa di accessori, tre macchine appese al collo e un flash sparato in faccia possano giustificarti?” (Ando Gilardi)
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Quanto distante devo volgere il mio sguardo?
Almeno su quest’ultima domanda una risposta parziale la trovo, e mi sento sempre più convinto che sapere come guardare permette di spalancare microcosmi in grado di raccontare storie che possono colpire, emozionare, consegnarci qualche elemento in più per costruire una nostra “etica”.
Andate a vederla. C’è ancora un fine settimana a disposizione per vedere delle belle foto e guardare a delle storie importanti. Alla fine di un percorso, potremo incontrarci e raccontarci quello che abbiamo o non abbiamo visto.
Vincenzo Russo © centoParole Magazine – riproduzione riservata