Monica Kirchmayr è una pittrice triestina che ha collaborato artisticamente con il suo pennello anche ad alcune rappresentazioni teatrali e cinematografiche, inserendo così arte nell’arte. Le sue opere si possono vedere in una vetrinetta in via Filzi 6, a Trieste.
Quando è nata questa sua vocazione artistica?
La mia vocazione artistica è nata con me, ce l’ho da sempre; e poi mio papà era un artista che, negli anni ’70, ha sperimentato tantissimo ed era abbastanza conosciuto, però ha smesso di dipingere all’inizio degli anni ’80, quando ero piccolissima. Quindi, fin da piccola, ho avuto a che fare con l’arte. Vivevamo in una casa in Viale XX Settembre, di fronte al Teatro Rossetti; in quegli anni il teatro andava bene: c’erano tantissime rappresentazioni, tanta gente che andava a teatro…super affascinante, per una bambina! La nostra casa era enorme e all’interno mio papà aveva il suo laboratorio: la stanza proibita, dove lui dipingeva, e dove non si poteva entrare: era tutto sporco, come lo è ora anche il mio di laboratorio. Quindi già assaporavo quell’aria di arte. Poi mio papà ha smesso di dipingere, io sono cresciuta, ho iniziato a frequentare la scuola d’arte: il disegno era una cosa che mi riusciva bene e allora l’Istituto d’Arte è stata una scelta naturale. Certo non avrei mai immaginato di diventare una pittrice: pensavo di andare all’Università o a studiare restauro, invece mi sono presto sposata e ho avuto Luca e poi, subito dopo, Luisa, e quindi le cose sono andate diversamente. I miei figli li ho voluti crescere personalmente, quindi per un certo periodo mi sono occupata prevalentemente di loro, però volevo anche fare qualcosa di mio, qualcosa che esprimesse le mie passioni e perciò ho iniziato a dipingere, a lavorare come artigiana decoratrice e subito ho iniziato a vendere i miei primi quadri. Questo mi ha fatto capire che la pittura era la mia strada.
Com’era l’Istituto d’Arte alla sua epoca?
Io me lo immaginavo meraviglioso, perché avevo i ricordi di mio papà, le sue fotografie di scuola con Schiozzi – era un suo compagno di classe. Ed ero felice di andare in questa scuola, mi sembrava un sogno che si realizzava, però già a quell’epoca la creatività veniva un po’ messa da parte, dando più spazio alle cose geometriche. Io che facevo decorazione pittorica, in laboratorio, mi trovavo a realizzare lavori tutti prettamente geometrici; non si poteva sperimentare tanto. Quando sono uscita da questa scuola ho finalmente potuto fare ciò che volevo, utilizzando però sempre gli stessi materiali che avevamo a scuola, come ad esempio la pittura all’acqua – infatti sono diventata una virtuosa della pittura all’acqua, riuscendo a realizzare delle opere, come se fossero degli oli. Tanti pensano che i miei quadri sono degli oli e invece i colori che utilizzo sono all’acqua e super lavabili (idropittura), con laccatura finale.
Il pubblico ha apprezzato da subito i miei lavori, quindi il riscontro è stato notevole e mi ha dato l’imput per continuare. Probabilmente, le mie opere piacciono, perché trasmettono un’energia che deriva dal fatto che quando ero piccola – per un periodo sono stata male – avevo questa voglia di vivere, di guarire, che trasmetto ancora nei miei quadri, anche se sono passati trent’anni.
Che tonalità di colore preferisce e utilizza maggiormente?
Credo che ogni giornata abbia un suo colore: ogni opera mi viene in base alla giornata e quindi la tonalità che scelgo dipende da come mi sento: posso usare le tonalità dell’azzurro o le tonalità del rosso; ultimamente sono molto presa dalle tonalità del marrone, o del color ruggine – non so se è il colore della maturità (ride), perché prima realizzavo tutte opere molto colorate: azzurre, gialle, verdi, tutti i colori dei bambini, insomma.
E che supporto utilizza?
A volte tela, ma quasi sempre tavola: usare la tavola è una necessità tecnica. I fondali circolari con la luce, le vibrazioni di colore, dei miei dipinti, li realizzo con determinate tecniche: utilizzo dei tamponi e devo pigiare molto sul supporto, quindi dev’essere per forza un supporto rigido, stabile. La tela non è adatta a queste mie esigenze perché si muove, vibra e può essere che dopo un po’ si scrosti.
Le scenografie sono dei lavori di grandi dimensioni; lei come imposta il lavoro quando deve realizzarle?
Prima di tutto, faccio un bozzetto in miniatura. Non ho un laboratorio enorme dove lavorare, e praticamente tutte le mie scenografie nascono pezzo per pezzo: le vedo finite solo in teatro. Ho realizzato scenografie anche per balletti, e per teatri molto grandi: La Sala Tripcovich, il Rossetti. Queste esperienze mi sono servite moltissimo per imparare a fare questo mestiere, sempre con l’aiuto di mio marito Gabriele Pistrin, che è un falegname. Comunque di base, il disegno è la cosa principale, e poi bisogna riuscire ad immaginarselo finito. Quindi l’immaginazione è importantissima e la stessa cosa vale per i quadri: io ho in testa ciò che voglio dipingere e quando arrivo al risultato finale dico: “ecco, è proprio ciò che mi ero immaginata”. A parte che nel mio caso è impossibile fare come per la natura morta, dove basta copiare dal vero una composizione: io non posso tagliare dei vetri e infilarvici dentro una pianticina, è impossibile. I miei lavori sono tutti frutti dell’immaginazione.
Quindi i quadri “normali”, di piccole dimensioni, li fa senza uno schizzo?
Tutti, anche i trompe-l’oeil – parola francese che significa “inganna l’occhio” – quelle finte vedute di finestre, dove sembra che ci sia una finestra, ma che in realtà non c’è. Anche per questo tipo di pittura l’immaginazione sta alla base di tutto: faccio un mare come lo vedo io, una collina come la vedo io. Quando dipingo queste vedute, è come se ci fossi dentro, invece, davanti a me, c’è una tavola in verticale.
Le scenografie teatrali le realizza nel suo laboratorio, oppure anche in teatro?
I ritocchi finali li faccio sicuramente in teatro. Il mio laboratorio è minuscolo, ma per fortuna abito in una casetta con un giardino ed è proprio là che realizzo le mie scenografie. Fortunatamente me le chiedono sempre verso la fine della primavera, inizio estate e, finora, il tempo atmosferico mi ha sempre aiutata: tre-quattro giorni prima della messa in scena c’è sempre stato il sole, e sono riuscita a dipingere in giardino.
E invece, com’è lavorare per il cinema?
Lavorare per il cinema è tutt’altra storia: mentre in teatro realizzi delle campiture molto grezze, lasci il segno del pennello, la visione ce l’hai da lontano, tutto appare bello, non si percepiscono le velature, i riflessi, mentre in realtà, se si guarda da vicino, risulta quasi un lavoro buttato su; al cinema invece bisogna realizzare tutto come se fosse vero: non si deve affatto percepire che sia passato un pennello; è tutto un altro tipo di lavoro. In più nel cinema succede che, quando ti chiamano, ti dicono: “Di cosa hai bisogno?”, tu fai la lista dei materiali che di occorrono, e loro ti comprano tutto. Però, può capitare che, nel momento in cui si gira, succeda un imprevisto e che si debba intervenire artisticamente, con quello che si ha – il segreto sta nell’inventiva e nella capacità di adattamento dell’artista che, in un nanosecondo, deve essere pronto ad intervenire e sistemare tutto. È entusiasmante!
Nel film “La sconosciuta” di Tornatore, che cosa ha fatto?
Tantissime cose! La cosa principale, quella più importante che ho realizzato, ma che nel film si vede pochissimo – hanno girato la scena al buio – è quando Michele Placido – battendo la testa sulla roccia – muore: ebbene quella roccia, l’ho fatta io; ho ricostruito una pietra del Carso. Durante la scena ero proprio a cinquanta centimetri dalla roccia. Quando sono andata a vedere il film ho detto: “Ci sono anch’io…un pochino più in là, ma ci sono!” Poi ho fatto il castello che viene regalato alla bambina. Tornatore mi ha chiesto personalmente: “Me lo faresti un castello tutto dorato, con le vetrate…” Io l’ho fatto e il giorno dopo gliel’ho portato. Lui è stato contentissimo del mio lavoro, infatti l’ha tirato fuori ben tre volte nel film questo castello, perché gli piaceva tantissimo. Poi per la scena dei soldi che scendono dall’alto, ho dipinto il finto legno sul soffitto, tutto il mobilio della casa di Ksenia, una fontana, dei vasi di marmo bellissimi, che in realtà erano in polistirolo e vetroresina. Un giorno eravamo a girare il film a Borgo Grotta, in una villa, e c’era continuamente da fare qualcosa e tutti dicevano: “Chiamate Monica! Chiamate Monica!” Ad un certo punto c’erano delle scarpettine da bambina che bisognava anticare all’istante e io avevo un vaso con l’acqua, dove lavavo i miei pennelli – l’acqua era sporca, di colore marron-nero. Quando mi hanno detto: “Monica antica queste, rendile più vecchie”, io le ho prese, le ho buttate nell’acqua sporca, le ho strizzate e le ho consegnate. Quando sono andata a vedere il film, hanno fatto una zoomata proprio sulle scarpe e mi sono detta: “Ho fatto anche questo….è una cavolata, ma è venuta bene!” Dopo ho lavorato anche per altri film, non molti, perché nei film classici, ad esempio, non sempre c’è bisogno di un decoratore.
Per “Sposami”, una fiction della Rai, ho realizzato tantissime cose, soprattutto gli interni, le boiserie, con il craquelé ho fatto un dipinto… A volte mi chiedono di fare delle cose mai realizzate prima – non è che io faccia ogni giorno scenografie per il cinema – e poi spesso sono cose particolari e per di più la chiamata mi arriva dall’oggi al domani, così è stato anche per il film di Tornatore. Non sapevo neanche che stessero girando un film qua a Trieste, quando mi hanno contattata.
Mi racconta l’esperienza della miniserie televisiva “C’era una volta la città dei matti” di Marco Turco?
Sono stata contattata telefonicamente da una produzione: “Sono Enrico Delle Site, avrei bisogno che tu mi facessi un Marco Cavallo in cartapesta, ma che sia uguale a quello che si trova a San Giovanni e vorrei sapere subito quanto mi costerà.” Ovviamente mi è difficile quantificare il costo di una cosa che non faccio abitualmente; l’unica cosa che bisogna fare è accettare subito. A me non mi ferma nessuno; se mi chiedono qualcosa che non so fare, accetto lo stesso: indagherò, mi ingegnerò. Infine il Marco Cavallo è venuto bene, anche grazie all’aiuto di alcuni falegnami, e di un mio amico che ha lavorato spesso nei film – ora ha mollato. Lui ha fatto la struttura di base, lo scheletro, nello stesso modo con cui vengono fatti i carri di Carnevale di Muggia. Io non l’avevo mai fatto, quindi ho sperimentato e con la rete delle gabbie delle galline abbiamo fatto la struttura e poi l’ho ricoperta con la cartapesta – cartone ammollato nell’acqua e colla – e l’ho modellata. Infine è stato dipinto. Questo cavallo l’ho fatto in quattro giorni, nel weekend, nel mio mitico giardino, perché non avevano un magazzino dove farmelo fare.
Quali pittori predilige?
Finché andavo a scuola ero una patita di Magritte e un po’ lo si nota nelle mie opere più vecchie. Mi piaceva la sua idea di illusione, dei doppi sensi. E mi chiedevo se sarei mai riuscita a fare un quadro di questo tipo. Mi stupivano molto le sue nuvolette, i suoi cieli; anche i lavori di Dalì mi piacevano tanto, però non tutti: adoravo i suoi Orologi Molli. Poi ero appassionata anche dei pittori fiamminghi, per il fatto che erano tutti precisi, curati nei dettagli, in particolar modo mi piaceva Dürer. Ultimamente mi sono interessata della produzione artistica di Vermeer, perché anche lui – come me – inseriva nei suoi quadri il vetro. Ho notato che ha realizzato quasi sempre le visioni di un angolo di stanza, con una finestra di fronte. Probabilmente era il periodo in cui l’uso dei vetri alle finestre si era diffuso notevolmente. Prima c’era il buio, adesso c’è la luce che entra nelle case, luce colorata: quella volta i vetri erano colorati e con legatura a piombo. Con pochi segni, le opere di Vermeer rendono tantissimo, anche gli arazzi che si vedono nei suoi quadri sono stupendi. È davvero bravo! Ora mi sto avvicinando alla pittura materica. Mi piace ritrovare materiali vecchi di uso contadino, e cerco di salvare tutte quelle cose che non si usano più, come vecchi attrezzi, chiodi, ferro. Recentemente realizzo delle opere con le cose che ho messo da parte, e allora apro i miei cassettini e cerco il pezzo da inserire nel mio quadro. Per la mia ultima mostra ho realizzato un quadro dal titolo “Chiodo fisso”, dove appunto ho usato un vecchio chiodo tutto arrugginito, ma che per me sembra un bel chiodo. La ruggine che si vede nei miei lavori è un effetto, è finta: in realtà è fatta utilizzando gesso e altri materiali – di metallico non c’è niente. Tutto è molto scenografico. Tra l’altro, ho intitolato una mia recente esposizione “Le ruggini”.
Quindi è tutto un’illusione…
Sì, è tutto un’illusione. Credi che sia ruggine, ma invece non lo è.
Venerdì 19 settembre verrà inaugurata, alle ore 19.00, la sua mostra “Tra materia e Luce”, presso Villa Prinz. Com’è l’idea di realizzare questa mostra?
La possibilità di fare questa esposizione in Villa Prinz l’ho avuta grazie al fatto di aver partecipato all’Ex-tempore “La Barcolana”, e di aver vinto. Una mia amica mi aveva detto di provare a mollare un po’ la pittura figurativa e così ho portato all’Ex-tempore un lavoro diverso da quelli che faccio di solito, più materico – si chiama “Il tempo” – è piaciuto e ho vinto. Ho avuto la conferma che posso fare anche quadri materici. Ovviamente non nego i lavori che ho fatto precedentemente, che, secondo me, sono i più originali in assoluto: tante persone mi dicono che non hanno visto niente del genere da altre parti. Mentre di opere materiche se ne trovano tantissime in giro, magari diverse, ma comunque ce ne sono. Il mio stile può piacere o no, ma questo dipende dal gusto personale.
Per quanto riguarda le mie opere materiche, la cornice ha un ruolo fondamentale: a volte, è più importante del quadro stesso, perché è essa stessa un’opera.
Le cornici le fa lei?
Diciamo che, in alcuni casi sì, ma in altri mi faccio aiutare da mio suocero: un pensionato che ha voglia sempre di lavorare e di sperimentare.
Quante opere ci sono in questa mostra?
Trenta opere tra grandi e piccole; qualcuna risalente a un paio di anni fa. Anche la vetrinetta che ho in via Filzi mi permette di esporre alcuni miei lavori, però non è la stessa cosa. Alla mostra ci saranno le stampe di due miei quadri, formato cartolina: uno legato alla fase precedente, mentre l’altro a quella attuale, materica. Entrambe le opere hanno sul retro una recensione fatta da due mie amiche. Questi stampe numerate, saranno date ai visitatori della mostra, e probabilmente le autograferò.
Che cos’è questo spazio in via Filzi?
È una vetrina, che ho acquistato con la vendita delle mie opere; quindi i miei lavori si sono autopagati l’esposizione. Ovviamente non posso metterci tanti quadri e pochi non rendo quanto una vera e propria mostra. Questa mia esposizione in Villa Prinz illustra un po’ tutto il mio percorso artistico, in modo tale da far capire come sono arrivata a questo ultimo stile più materico. Per capire meglio un artista – anche i grandi – è necessario conoscere non solo l’ultimo periodo, bensì tutta la sua produzione. Prendiamo come esempio Picasso, vedendo gli ultimi suoi quadri uno può pensare: “so farli anch’io”, mentre sappiamo perfettamente che lui ha impiegato tutta la vita per tornare a disegnare come un bambino. Anch’io ho iniziato facendo quadri molto dettagliati, curati, precisi, e ora sono passata a uno stile più istintivo.
Una musica che assocerebbe ai suoi quadri…
Fino adesso, le uniche musiche che ho associato ai miei quadri, sono state quelle scritte da mio marito – compositore e cantautore – che ha scritto e scrive tantissime canzoni. È da quando ci conosciamo io le canto e adesso le canta anche nostra figlia Luisa. Dovendo scegliere qualcos’altro, penso che preferirei qualche brano di musica classica, anche se a me piace tanto Michael Jackson (sorride). Oppure non mi dispiacerebbe anche una musica molto ritmata, tipo quella da tip-tap.
L’esperienza artistica che le è piaciuta di più?
A me piace l’Ex-tempore, fatta bene. Ultimamente vengono fatte delle finte Ex-tempore: timbri il quadro, lo porti a casa, e poi lo riporti dopo qualche giorno; non dovrebbe essere così. La prossima settimana ci sarà quella di Grisignana in Croazia, anche lì si hanno più giorni a disposizione. L’Ex-tempore è quando timbri il quadro alla mattina e alla sera lo riconsegni e questo l’ho fatto per almeno cinque-sei anni all’Ex-tempore di San Candido. Dipingevo sempre in piazza del Duomo e molte ragazzine di dieci-dodici anni mi seguivano tutto il giorno e guardavano come veniva fatto il quadro. Alla sera c’era la premiazione e loro erano sempre presenti per sostenermi. I giovanissimi sono molto attratti dalle mie opere, soprattuto perché sono molto colorate e un po’ forse perché ispiro simpatia.
Come vede la situazione artistica a Trieste?
Ultimamente mi sto trovando con alcuni miei compagni di scuola e stiamo creando un gruppo. Ci piacerebbe smuovere un po’ l’ambiente artistico triestino, che è fermo da anni. Io a casa ho dei vecchi opuscoli e delle brochure, di quando mio padre faceva il pittore, e ho notato che gli artisti menzionati sono praticamente quelli di cui si parla ancora oggi, mentre di nomi nuovi, attualmente ce ne sono davvero pochissimi. Si ha l’impressione che i giovani facciano parte di un altro mondo e che non possono c’entrare con questo: non c’è collegamento tra queste due entità. Bisognerebbe invece promuovere di più i giovani, dar loro più spazio per esprimersi, e quindi all’arte la possibilità di evolversi. Anch’io quando ero giovanissima e mandavo qualche mia opera alle varie collettive che c’erano all’epoca, mi sentivo un po’ esclusa dall’ambiente, perché troppo giovane, quindi so bene come vanno queste cose. Proprio per questo ho deciso di comprare la vetrinetta in via Filzi ed esporre qualche mia opera e farmi così conoscere dalla gente. In questo momento anche le mostre tradizionali cominciano un po’ ad essere riviste. Oggi, per attirare il pubblico, bisogna creare dei veri e propri eventi: non è più sufficiente mettere i quadri in mostra e lasciarli là. A Trieste ci sono molte persone che hanno voglia di fare, di inventarsi, ma ancora tutto si muove troppo lentamente.
Il pittore è visto come un che dipinge e basta, invece, fare il pittore è un vero e proprio lavoro. Se piace, bisogna perseguire i propri obiettivi. Anche fare l’artista è un mestiere.
Lei ha vinto il premio “Manipercreare”…
Sì, l’ho vinto l’altr’anno. Io e la mia amica Samantha Fermo abbiamo partecipato al primo concorso
di questa nuova associazione di Roma, Mani per Creare, curata da Floriano Massera. Siamo andate a Roma e tutti ci aspettavano con impazienza, noi non capivamo il perché. Ci sono stati tre vincitori a pari merito. In premio c’era la possibilità di esporre una propria opera a Londra. La prima ad essere nominata è stata la signora Maria Rosaria Esposito, poi la mia amica e infine – non avrei mai immaginato che vincessero due di Trieste – io. Eravamo tutte e due contentissime.
Com’è stata questa esperienza a Londra?
È stata molto bella: sono andata a Londra, senza bimbi e marito, con la mia amica Samantha e suo fratello Christian – un bravo pittore. L’esposizione era in una cripta, sotto la chiesa di Saint Pancras.
I muri erano in pietra a vista, il clima era professionale. La cosa che mi ha colpita di più è che la curatrice d’arte romana Nadia Spita, che lavora a Londra, ci ha fornito un libricino con i nomi dei pittori e i titoli dei quadri esposti con a fianco il loro prezzo. Qui a Trieste non mi è mai capitato di vedere una cosa simile; invece credo che sia utile perché non tutti hanno il coraggio di chiedere quanto costa un quadro, oppure immaginano che costi tantissimo quando invece non è così, quindi dare al visitatore un libricino con i prezzi delle opere esposte, potrebbe essere una cosa carina.
Che cos’è per lei l’arte?
È assolutamente la mia espressione, non posso farci a meno. Se non realizzo un quadro, mi metto a demolire casa (ironicamente parlando). Ho sempre la necessità di realizzare qualcosa manualmente.
Fare scenografie o decorazioni è comunque bello, mi dà soddisfazione, però è una cosa che devo fare su commissione, mentre le opere d’arte sono la vera mia espressione, che rispecchiano il mio modo di essere e il momento in cui le ho realizzate. A volte avrei tanta voglia di dipingere, ma non ho idee; altre volte ho tutto il tempo del mondo e non mi viene niente; invece altre ancora, in un secondo viene fuori un’opera. Oppure, ci sono dei momenti in cui riesco a mettere in ordine il mio laboratorio, allora mi dico: “beh ora che c’è spazio, posso iniziare a dipingere” e invece non mi viene niente. Mentre dei giorni sono che lavoro in un angolino piccolissimo, e magari in quei momenti ti vengono le cose migliori. Oppure sei felice, ti metti a dipingere e non viene fuori nulla. Ma credo che tutto ciò faccia parte dell’essere “artista”: anche i cantanti, gli attori, magari nei momenti in cui sono più pensierosi, creano le loro migliori opere. Io nei miei lavori esprimo sentimento, più che veri e propri concetti. Se dovessi esprimere concetti dovrei cominciare a pensare al mondo d’oggi, alla vita, alle guerre e a me non va di essere giudice di niente. Non mi sento di fare veramente dell’arte concettuale, anche perché, adesso come adesso, in giro se ne trova tanta.
I suoi quadri sono emozioni, sentimenti…
Vere e proprie emozioni, sì!
Ringrazio la pittrice Monica Kirchmayr per la chiacchierata artistica.
Nadia Pastorcich © centoParole Magazine – riproduzione riservata
Ecco una pittrice triestina piena di entusiasmo per la sua professione, che poi ha allargato con partecipazioni ad allestimenti teatrali, cinematografici e televisivi.
Si sente, in questa intervista, il suo entusiasmo, come un mare che vuole allagare una pianura spesso arida ed asciutta, attingendo alla fonte dell’inventiva, della pittura, della fantasia. ll motore primo per riuscire credo sia proprio l’amore per quello che si fa, che si crea, che si intravede come finito forse ancora prima di incominciare un’opera, esattamente come Monica dice. Anche qui una camera chiusa, quella del padre, pure pittore, geloso evidentemente di un’intimità creativa cui a nessuno era permesso violare. Il disordine di quella stanza, spesso proprio motivo per gli artisti di ispirazione, per meglio raccogliere le idee e trasferirle nel vero. Disordine di stanza che, nella sua attività, Monica ha poi anche lei ritrovato. Da notare la sua caparbietà, quel voler assolutamente riuscire, come anche grazie all’iniziativa di comperarsi una vetrinetta espositiva tutta sua, in Via Filzi a Trieste. Quello che Monica afferma sull’Istituto d’Arte Nordio posso confermarlo anch’io come vero. Mio figlio, all’epoca, frequentava pure quell’Istituto, ed il Professor Schiozzi era proprio così, dando molta rilevanza al geometrico e poca o nulla all’ornato. Diceva che questo poi sarebbe venuto da solo. L’importante e la base di tutto era per lui il geometrico. Mio figlio aveva iniziato all’Istituto d’Arte di Trento, dove la teoria era un po’ l’inverso, ma poi, dopo i primi tempi, si adattò bene all’insegnamento di Schiozzi. Ecco anche perché la storia di Monica la sento particolarmente vicina, quasi di famiglia.
Ho trovato l’intervista particolarmente interessante, anche nei confronti delle incentivazioni artistiche da intraprendersi nei confronti dei giovani, che appaiono oggi come sciolti, ognuno quasi abbandonato a se stesso, in momenti economici non certo favorevoli per ogni attività di sorta. Ma alla fine il lavoro premia, come ha dimostrato l’intervista a Monica Kirchmayr. Bisogna credere ed essere proprio innamorati in quello che ognuno fa nella vita, in modo particolare nel mondo dell’arte, un mondo in molti casi così poco remunerativo e difficile da percorrere. Ma la strada, se giustamente intrapresa, può riservarti, secie nello specifico settore, delle soddisfazioni impagabili! Quelle, appunto, che prova Monica.
Ringrazio Monica Kirchmayr per la risposta e precisazione data, non potendo farlo direttamente in Facebook cui non sono iscritto. Concordo pienamente con quanto esposto dalla pittrice, e tale era ed è stata l’opinione mia e di mio figlio. In effetti, dietro ad una linea diritta sta l’abilità nascosta di saper usare matita o pennello per disegnare o dipingere nel modo più compiuto. Tutto, se vogliamo, nasce da una linea, diritta o curva che sia. La geometria dà piena padronanza di tratto ed apre ad ogni più vasta possibilità.
Cesare
Grazie Cesare …le linee della vita…..infine …vero?
Certamente 🙂