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Passati alcuni giorni, e svolto il ricovero ospedaliero precauzionale che le era stato consigliato dopo la disgrazia, alla bambina era stato permesso il ritorno a casa dal padre.
Io, il dottor Tiberiakis e l’ispettore De Stradi, titolare dell’indagine per la Questura di Trieste, eravamo stati incaricati nel frattempo (io, ovviamente, in via del tutto ufficiosa), di stilare una perizia sulle condizioni psicofisiche della piccola.
La convocazione mi arrivò tramite sms: mi si diceva di raggiungere l’appartamento dov’era accaduto il fatto e di prepararmi a qualsiasi cosa “si fosse dimostrata” quel pomeriggio. Naturale o innaturale che fosse. Per un attimo raggelai e, allo stesso tempo, mi considerai uno stupido per avere avuto una reazione del genere. Inghiottii la saliva, rassicurandomi di non essere un credulone e di farla finita con le psicosi per quello che si definiva mera superstizione. Feci appello alla mia ferma convinzione che tutte le esperienze di questo mondo avevano, per certo, una spiegazione razionale, scientifica e confutabile.
Arrivai, puntualissimo, al portone di via di Monfort 1 e suonai il campanello che mi era stato indicato. Non potei fare a meno di notare alcuni cartelli di agenzie immobiliari affissi al vetro dell’ingresso: quella drammatica esperienza, e le voci che l’accompagnavano, aveva persuaso qualcuno degli inquilini dei due stabili a cambiare casa.
Salii con l’ascensore al sesto piano; entrai in un appartamento senza anticamera, con un corridoio perpendicolare che si diramava subito verso la mia destra e verso la mia sinistra. Percepivo un intenso profumo acre. La brutta carta da parati era tipica degli anni Settanta, fatta di colori vivi e caldi, tra l’arancione e il marrone scuro con dei cerchi concentrici che si ripetevano alternativamente, all’interno e all’esterno della greca principale. Fui condotto da un agente della Questura verso l’ultima stanza, posta alla fine del lato sinistro della casa (e mai altra definizione, riflettei, sarebbe stata più appropriata in quel momento), dopo aver lasciato alle mie spalle una piccola cucina, stretta e lunga, che odorava di salsa di pomodoro.
Entrai, con il poliziotto che era venuto ad accogliermi per farmi strada, in una camera piuttosto ampia, e quando mi guardai attorno, per usare un eufemismo, rimasi di stucco. La stanza era piuttosto popolata; accanto a me c’erano un paio di persone che, ovviamente, riconobbi subito: De Stradi e Tiberiakis. Quindi anche altri quattro soggetti sconosciuti.
“E questo è il dottore Gianni Buozzi, mio fidato consulente di medicina e psicologia, come vi avevo accennato poco fa…” Così, vedendomi entrare, l’ispettore mi introdusse a tutti, quantunque non praticassi da tempo il mio mestiere ospedaliero.
Alla sinistra di quei due stava colui che riconobbi nella descrizione del padre della bambina. Un uomo piuttosto anonimo, sciatto e appesantito dallo stress. Sul lato opposto della stanza, oltre un grande letto centrale a due piazze con la testiera appoggiata alla parete est, stavano un prete e un’altra persona, piuttosto distinta ed elegante. In mezzo al lettone, seduta pacatamente e composta, sul ciglio del materasso, c’era la piccola Nilde. Aveva lo sguardo un po’ intimorito, ma dondolava i piedi spensieratamente giù a mezz’aria, con un sorriso di circostanza rivolto al padre. Nella stanza c’era una piacevole penombra, ricreata appositamente abbassando le tapparelle dell’ampia finestra (quella che aveva visto volare giù la sfortunata tata). Ai lati del letto erano posti due comodini e, su uno di questi, c’erano alcune candele usate, di colore blu, consumate a diverse altezze. Sulla parete, accanto alla cassettiera, vidi dei disegni infantili fatti con pastelli colorati, simboli sconosciuti e misteriosi, alcuni irriconoscibili perché cancellati caoticamente col nero.
Non capivo a quale genere di riunione, tutti insieme, ci stessimo apprestando.
Di sicuro, la figura che attirava maggiormente la mia attenzione era quella del prete: appariva buffo, impacciato eppure, allo stesso tempo, ammaliante e autoritario. Alto e secco, piuttosto attempato, vestiva in modo classico, indossando il completo nero clergyman con il tipico colletto bianco di plastica lucida infilato sotto i lembi della camicia. Pareva piegato su un lato, come una canna al vento, sintomo, forse, di un problema cronico all’anca destra. In mano teneva un piccolo libro spesso, dalla copertina di pelle scura e antica; sopra vi aveva appoggiata una croce di metallo dorato non troppo grande, molto elaborata, nascosta in parte dalla mano sinistra. Il viso era grinzoso e vissuto, con un naso storto ed enorme in mezzo all’ovale, che, in circostanze meno drammatiche, mi avrebbe fatto parecchio ridere. Privo di capelli dalla fronte alla nuca, aveva dei ciuffi bianchi e neri scomposti che partivano a caso dalle tempie in ogni direzione, in quello che poteva sembrare un tentativo di riporto mal riuscito.
L’altra persona, mi parve di capire, era un esperto di psicologia della famiglia, al quale, il padre, si era rivolto per i disturbi emotivi suoi e della figlia. Piuttosto distinto ed elegante, aveva ai piedi una borsa da medico, piena di tutto ciò che gli sarebbe servito per analizzare la giovane paziente. In mano un costoso blocchetto elettronico, su cui appuntava in tempo reale ciò che stava accadendo nella stanza. Portava, inforcati sul naso, un paio di occhialini tondi pince-nez, che gli conferivano un’aria molto professionale e distinta. Di sicuro, ogni gesto misurato e opportuno denotava una grande competenza.
“Bene…”
Ruppe il silenzio l’ispettore De Stradi.
“Ora che siamo tutti qui, direi che possiamo cominciare il nostro, la nostra… aiutami tu, Tiberiakis… come potremmo chiamarlo?”
Il medico legale si schiarì la gola e, per togliere dall’imbarazzo l’ispettore, pronunciò subito uno svettante “La nostra… dimostrazione! Anche la Chiesa… ehm… vorrà constatare…”
Mi guardai attorno circospetto, ignaro di quello che sarebbe successo da lì in avanti, mentre gli astanti iniziavano a muoversi per assumere la propria posizione. Notai, con la coda dell’occhio, che l’ispettore De Stradi e il dottor Tiberiakis arretravano, per appoggiare le spalle al muro. Come se volessero approntarsi ad assistere a qualcosa di interessante, ma più distanti possibile.
Lo psicologo pomposo estrasse dalla borsa di lavoro un piccolo registratore digitale che avviò, lasciandolo acceso sopra la scrivania alle sue spalle. Poi cominciò a rivolgere alcune frasi convenzionali alla bambina.
“Buongiorno, piccola Brunilde… adesso, tutti insieme con il tuo papà, cercheremo di capire una grande ed importante questione. Ecco che così saremo contenti e staremo bene, sapendo che dentro di te tutto è sereno. Nel caso così non fosse, ognuna delle persone presente qui dentro, che ti vuole un sacco di bene, saprà aiutarti a sconfiggere quella brutta cosa che, qualche volta, ti fa stare tanto male. E che, alle volte, fa male anche ad altre persone. D’accordo?”
Nilde, dagli occhi grandi e dolci, di un profondo marrone scuro, guardò con le gote arrossate verso il papà, che le sorrise come consenso, e poi tornò con lo sguardo verso lo psicologo. Mi fece un’infinita tenerezza piuttosto che spavento.
“Sì, d’accordo…” sussurrò con un filo di voce, anche se non ne sembrava persuasa.
Il padre, allora, si appressò al letto per stare vicino alla figlia e proruppe, con entusiasmo simulato, rivolgendosi anche a tutti noi “Piccolo tesoro! Vuoi che accendiamo le candeline profumate che ti piacciono tanto? Del tuo colore preferito: blu. Che quando sono accese ti fanno stare tanto bene e dormire sonni tranquilli, senza incubi. Sì?”
Tutti acconsentimmo, guardandoci l’un l’altro, senza avere nulla da obiettare; per me, diventava sempre più oscuro ciò che sarebbe potuto accadere, da quel punto in avanti. Si procedette, e tutti e quattro i mozziconi di cera blu olezzante, una volta accesi, cominciarono a emanare un piacevole odore di agrume e orzata dolce.
Il prete, nel frattempo, aveva aperto il suo liso libercolo su di un segnalibro posto in precedenza, impugnando nella mano destra, ben stretta, la croce istoriata.
“Bene. Caro Don Pietro, direi che è giunto il momento di lasciare nelle tue mani la prosecuzione di questa, come preferiamo definirla, dimostrazione.”
Tiberiakis, aderente alla parete, si tolse da ogni possibile intromissione.
“Ah, ma io adoro dare dimostrazioni” gli rispose il vecchio prete con una una voce sicura e lievemente afona.
La gradevole, seppure insistente, fragranza, liberata dalle candele, aveva riempito la sala. Passò qualche minuto infinito e mi accorsi che da fuori, la luce del sole stava filtrando sempre più debolmente attraverso le serrande, come se l’astro fosse tramontato in un solo istante. Preso da tutte queste sensazioni improvvise, forse solo a causa del caldo umido presente nella stanza, ebbi un inaspettato accenno di nausea e, guardando verso l’alto, mi parve che il soffitto si stesse improvvisamente abbassando su di me. Scrollai un po’ la testa per riprendermi e tastai con la mano la parete alle mie spalle come riferimento, cercando di rimanere razionale e lucido sulla dimostrazione in corso.
Don Pietro si era mosso di fronte alla bambina, che pareva pure mezza intontita, dato che le si chiudevano le palpebre a mezz’occhio. L’anziano prelato aveva cominciato a proferire alcune formule in latino, lette direttamente dall’antico tomo tenuto alto sotto gli occhi. Ecco di cosa si trattava, rimuginai dentro di me, con la testa leggera e inebriata. La cosiddetta dimostrazione era un vero e proprio esorcismo!
Strinsi le palpebre, avvertendo le gambe molli, quando mi pareva ormai che l’unica luce presente nella stanza fosse quella prodotta dalle candele.
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