Philip Winter, il protagonista di Lisbon Story, arriva a Lisbona attraversando il ponte 25 de Avril a bordo di una scassatissima Citroen CX Break rossa, che più volte minaccia di lasciarlo per strada durante il viaggio dalla Germania al Portogallo. Silvia ed io ci arriviamo in aereo, sbarcando in un aeroporto moderno cosmopolita. Uomini d’affari mescolati a turisti e a donne Capoverdiane in abiti coloratissimi, sovrastati tutti dalle linee ardite e dai vuoti scolpiti di trasparenza e acciaio tipiche degli aeroporti (quelli belli).
Questa è la prima differenza che mi accoglie arrivando a Lisbona, con addosso il desiderio di viverla con almeno un po’ delle sensazioni che mi ha lasciato addosso uno dei miei film di Wenders preferiti. Vent’anni tra questa mia desiderata visita e il film che ha trasmesso in giro per il mondo il fascino di questa città e della sua musica, il fado.
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La luce però è quella. Brillante, tagliente, che ti parla di contrasti e che amplifica il cielo di un azzurro brillante e terso che pare perfetto per i tetti rossi di Alfama. Una metro comodissima ci porta direttamente in albergo, senza dover ricorrere a costose navette. Uno sceglie e prenota un albergo, Bed & Breakfast o che sia, guardando una mappa o una guida, ma non ha un’idea precisa di dove finirà. Non tanto geograficamente, quanto come atmosfera. Placa do Chile si rivela essere un quartiere popolare nel vero senso della parola; un quartiere di gente che la mattina si alza per andare in ufficio o in fabbrica, in cui non ci sono ristoranti caratteristici o di cucina internazionale, ma parecchie rosticcerie e panetterie. Un quartiere in cui le case non sono né fatiscenti né patinate d’antico da turismo. Un quartiere dove la gente vive normalmente. Ma anche qui, sugli edifici, pareti intere coperte con le azulejos, le piastrelle smaltate e decorate cui nessuna casa sembra voler rinunciare. Come decorazione, anche se ristrutturata o totalmente nuova.
Le linee delle strade, comunque, iniziano a farmi sentire un’aria di Trieste sempre più marcata. Esattamente come chi a Lisbona c’era già stato mi aveva fatto notare.
Scendiamo verso l’inevitabile (e bellissima) Praca do Comercio e capisco anche perché quest’aria familiare. Le linee dritte e squadrate sono un tratto di ispirazione illuminista, che fu guida per la ricostruzione della maggior parte di Lisbona dopo il terremoto devastante del 1775, e non siamo distanti dal tempo e dall’ispirazione che hanno guidato la costruzione del Borgo Teresiano. Praca do Comercio è, in effetti, identica a Piazza dell’Unità a Trieste; non è sul mare, ma è solo un dettaglio, perché si affaccia sul largo estuario del Tejo, che pare largo come il Golfo di Trieste o poco meno. Ma per il resto… rettangolare, con al centro un monumento enorme e vegliato da piccioni, incorniciata da palazzi storici, da caffè antichi, uffici turistici e sedi istituzionali.
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La luce, ancora. È diversa, però. È quella di Lisbona.
Dietro di noi subito il rumore sferragliante di un tram elettrico. È il 28E. “E” sta per “eletrico”. I tram sono un’altra delle immagini che lascia affascinati nel vedere ‘Lisbon Story’ e, anche se ora sono sponsorizzati dalla Coca-Cola o da altri, conservano il loro fascino. Li abbiamo presi più volte, seduti sulle panche di legno, quando posto ne trovavamo, a scorrere con lo sguardo un giro di almeno tre quarti d’ora su e giù, passando praticamente attraverso tutti i quartieri sottostanti, tra cui Alfama.
E Alfama è una gioia per gli occhi. Non solamente per il fatto di essere uno dei pochi quartieri di Lisbona sopravvissuto al devastante terremoto, ma anche perché davvero chi ci abita pare vivere con un ritmo diverso, più di quanto gli abitanti di Lisbona tutta facciano già. Ad Alfama improvvisamente le vie ottocentesche si incrociano solo ad angolo retto in un tentativo di razionalizzare la bellezza, lasciano spazio ad un dedalo di viuzze strette ed alte, in cui le persone chiacchierano da una finestra e i bambini si giocano in ogni angolo di strada che si conquistano. Le azulejos sui muri delle case si moltiplicano e ogni ristorante attrezza una griglia in mezzo alla strada con tutto quello che possono recuperare: bidoni, o latte d’olio tagliate, o qualsiasi cosa. Il 28E ci scarrozza tremolante ed affollato un po’ da turisti e un po’ no. E i ragazzini continuano a scroccare passaggi aggrappandosi alle porte in posizioni precarie, e non solo loro: Silvia mi indica un signore sui settanta, che, con grande dignità si aggrappa anche lui alle portiere montando sul predellino. Una fermata più in là un poliziotto lo invita con ferma gentilezza a scendere. Non si può.
Ogni tram elettrico ti porta in uno dei tanti punti panoramici della città, i miradores, affrontando erte non indifferenti, ma lasciando i tratti davvero molto ripidi agli elevadores, ancor più piccoli tram a cremagliera che si arrampicano fino a la’ dove si possono abbracciare i molti panorami di Lisbona. Sparpagliata tra la riva del Tejo e sette colline, la città è visibile nella sua interezza praticamente solo dal castello di Sao Jorge, ma gli altri belvedere, come li potremmo chiamare in Italia, offrono panorami diversi della città. Dai tetti rossi di Alfama ad uno sguardo verso il colossale ponte Vasco de Gama, da Baixa Chiado a Belem.
L’amico regista Friedrich, amico del fonico Philip, è in ‘Lisbon Story’ colui che lo convoca a Lisbona per un progetto cinematografico e se ne va in giro, perdendosi in essa e nel proprio progetto, con una cinepresa a manovella dei tempi del cinema muto girata verso le proprie spalle, riprendendo immagini che non siano contaminate dal proprio sguardo; immagini che lo spettatore abbia la libertà di interpretare. A Philip ad un certo punto dice:
“Le immagini non sono più quelle di un tempo. Impossibile fidarsi di loro, lo sappiamo tutti, lo sai anche tu. Mentre noi crescevamo le immagini erano narratrici di storie e rivelatrici di cose. Ora sono tutte in vendita, con le loro storie e la loro prose. Sono cambiate sotto i nostri occhi, non sanno più come dimostrare nulla, hanno dimenticato tutto, le immagini vengono svendute aldilà del mondo Winter e con grossi sconti!”
In un momento di assoluta supponenza mi ispiro a tutto questo e provo a fare tutta una serie di scatti senza guardare dove scatto, cullato solo dallo sferragliare del tram.
Gli scatti si riveleranno una totale schifezza. Nulla si improvvisa veramente, una piccola – grande – lezione. Mi accontento delle immagini scelte a mio gusto, che sono sicuramente le cose viste da me, ma in quanto tali sono uniche. Belle non lo so, non sta a me dirlo, ma uniche sicuramente. Mie le linee delle colonne sotto il cielo che fa da tetto al Convento do Carmo, mio lo sguardo sulle rotaie che sprofondano nel nulla di una discesa che scorre come acqua inevitabilmente verso l’acqua dell’estuario.
Le rotaie.
Credo di aver capito che le rotaie sono la venatura di questa città, sopra e sotto il suolo. Sotto una metropolitana bella e funzionale, che corre con una precisione teutonica nascosta sotto una superfice perennemente un po’ sospesa nel tempo, dove contrariamente a quel che accade nelle stazioni della metro, è difficilissimo trovare in giro un orologio, un qualsiasi orologio, come a voler sottolineare una quieta indifferenza allo scorrere del tempo. Sopra la superficie, i tram. Vecchi e più moderni. Rumorosi, spesso colmi, di persone in cui un qualsiasi umore non buono difficilmente blocca la disponibilità a chiacchierare. Tram che collegano Belem al quartiere Expo, le due estremità protese verso ambizioni architettoniche moderne che abbracciano una città che invece non pare voler cambiare troppo la propria anima, in cui spettacolari graffiti di writers appaiono sulle superfici autorizzate dalla municipalità (non sempre come è giusto sia) a volte a contrastare con caseggiati congelati in un’altra epoca. A Belem il centro culturale ed il museo Berardo (con tono a la’ ‘Lonely Planet’, sto dicendo da un po’ a tutti che è imperdibile, perché ospita cose che vanno da Picasso a Mondrian a Warhol, e perché è gratis) sono il contrappunto alla parte più interna e seicentesca di questo quartiere alla estremità più vicina al mare di Lisbona. Linee moderne e pulite di pietra e granito bianco, e verde di giardini sotto un azzurro talmente luminoso da risultare abbagliante. Guardano un po’ alla torre di Belem, simbolo della gloria marittima dell’impero coloniale portoghese, e un po’ al monumento che ricorda i grandi scopritori di quell’epoca, costruito invece nel tempo della dittatura filo Franchista di Salazar, e che difatti ha delle linee pesantemente Littorie. Il centro culturale lì in mezzo, come a voler mettere pace a quelle due anime, senza dimenticare mai di essere figlio del Venticinque aprile del Settantaquattro. La Rivoluzione dei Garofani, una rivolta popolare sostanzialmente pacifica, che ha liberato il paese, è stata celebrata nel suo quarantennale due giorni prima del nostro arrivo, e nell’aria se ne sente ancora l’atmosfera. Su parecchi muri i murales parlano della “moral de 25 avril” e foto dell’epoca sparpagliate in tutti i luoghi della città riportano il volto del comandante Salgueiro Maia, un eroe della Rivoluzione dei Garofani stessa, e che praticamente ne è il simbolo.
Silvia ed io giriamo in lungo ed in largo Lisbona, lasciandoci cullare dal suo ritmo lento e scopriamo la cattedrale del Sé e scopriamo che Sant’Antonio da Padova è nato a Lisbona, ci avventuriamo nel Barrio alto e ci concediamo una birra al tramonto presso ogni miradouro possibile, cercando di capire quale sia il nostro preferito, se quello affollato di ragazzi che si rilassano al sole della sera di Santa Caterina, o quello alberato e tranquillo a Graca. E nel nostro girovagare continuo sempre più spesso alla sera finiamo ad Alfama. Rapiti dal suono di un fado che è sia il simbolo di questo quartiere sia una risorsa turistica di cui praticamente ogni ristorante oramai non po’ fare giustamente a meno per attrarre turisti. Eleggiamo un posto dove si beve vino e gingjinha mangiandoci insieme pane, salsiccia (regolarmente cucinata in strada) e formaggio, mentre i ragazzini sfrecciano in bici anche dopo la canonica ora di cena e le vecchie fumano alla finestra guardandoci distrattamente.
Quando partiamo, comprendiamo in piccola parte la parola “saudade” che punteggia assieme alla parola “ausencia” praticamente ogni testo di fado.
Ripenso anche al magnifico dialogo sulla “biblioteca delle immagini mai viste” tra i due protagonisti di ‘Lisbon Story’, tanto caro a chi si appassiona di fotografia, e, quantomeno, non posso non pensare che Wenders non poteva trovare città più adatta.
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