Andy Warhol: ritratto di Blondie (Deborah Harry) scoperto su un computer Amiga 1000.
L’ Andy Warhol Museum ha annunciato la recente scoperta di alcuni esperimenti creativi di Andy Warhol , realizzati nel 1985 attraverso l’uso di un computer Commodore Amiga 1000, il primo computer della piattaforma Amiga della Commodore Internationa, presentato il 23 Luglio di quello stesso anno a New York e del quale Andy fu, all’anteprima, il Testimonial insieme a Debbie Harry, nota cantante del gruppo newyorkese “Blondie”. Durante la presentazione l’artista Andy Warhol disegnò un ritratto della cantante grazie ad una fotocamera collegata al computer, attraverso la quale prima scattò una fotografia e poi la modificò in diretta grazie a un software dedicato all’elaborazione di immagini digitali presente nel computer, l’Amiga 1000, che successivamente gli fu regalato.
Ventisei anni dopo, l’artista di Brooklyn Cory Arcangel , guardando il video di quella presentazione, ipotizzò quale fine potesse aver fatto quel ritratto, chiedendosi anche se Warhol avesse realizzato altre opere sul computer. Nel 2011, recatosi a Pittsburg, all’Andy Warhol Museum, proprio con lo scopo di rintracciare il computer che era stato di Andy e le presunte immagini salvate nella sua memoria, scoprì che numerosi floppy disk appartenuti all’artista erano ancora conservati nel museo e iniziò quella che lui stesso definì una caccia al tesoro durata per quasi tre anni e che ha portato alla luce diciotto immagini digitali, dodici delle quali firmate dallo stesso Warhol.
Il recupero del materiale informatico e dei dati memorizzati sui floppy disk è stata un’operazione molto complessa, dal momento che quel particolare tipo di memoria è basata su supporti magnetici che facilmente si deteriorano con gli anni, ma, grazie al supporto tecnico del docente d’arte Golan Levin e del team del Computer Club della Carnegie Mellon University, i ricercatori sono riusciti ad estrarre le immagini, inizialmente rintracciate solamente con nomi come “campbell.pic” e marilyn1.pic” e illeggibili ma comunque chiaro indizio delle informazioni che avrebbero potuto esservi contenute e degli esperimenti d’arte computerizzata di Warhol.
Tra queste ci sono le rivisitazioni digitali di alcune delle opere più famose dello stesso artista, una sorta di galleria iconica:
la banana utilizzata per la cover del gruppo “The Velvet Underground” nell’estate del 1966, che segnò l’ inizio della collaborazione tra l’artista e il complesso rock, un barattolo di zuppa Campbell la cui serie “Campbell’s Soup Cans “ è indubbiamente l’opera più nota di Warhol, alcuni ritratti come quello di Marilyn e Debbie Harry (quest’ultimo probabilmente lo stesso che aveva realizzato durante la presentazione del computer Amiga); una versione a tre occhi della Venere di Botticelli, chiaro esempio di quella tendenza di Warhol a ripercorrere i classici dell’arte italiana che si riallacciava ad una delle sue opere più note, la ” Monna Lisa” del 1963, la rilettura della Gioconda di Leonardo. Arte che cita arte.
Queste opere dimostrano come Andy continuasse ad essere un interprete dello spirito del suo tempo anche dopo il successo degli anni ’60 e ’70 ed è probabile che l’artista abbia intuito subito le potenzialità che poteva offrire un semplice programma di grafica; uno dei primi computer graficamente evoluti, con funzionalità che potrebbero però sembrare banali e primitive se paragonate ai programmi di computer grafica dei nostri giorni (basti pensare ad Adobe Photoshop e al suo lunghissimo percorso d’evoluzione).
Il direttore dell’ Andy Warhol Museum, Eric Shiner, ha detto a tal proposito: “(Andy) Non aveva paura delle nuove tecnologie, anzi le ha subito abbracciate, voleva padroneggiarle, usarle come nuovo mezzo espressivo”.
Questa occasione avrebbe potuto essere l’inizio della ricerca di un nuovo linguaggio, una nuova arte, tecnologicizzata, virtuale, mediata, sempre più lontana dal reale, dalla natura, dal mondo fisico persino quello delle scatole di zuppa Campbell o delle serigrafie. Forse è solo l’inizio di quella che potrebbe essere chiamata propriamente ‘arte digitale’, dove al posto del pennello c’era un mouse. Un tipo di arte la cui fruizione era possibile solo grazie allo schermo di un computer capace di leggere i Pixel che componevano l’immagine , una realtà quindi artificiosa e artificiale che rispecchia quella del mondo della Pop Art, quella in cui il sintetico aveva sostituito il naturale in un mondo in cui l’impatto dei mass-media aveva reso ogni esperienza un’esperienza mediata.
Nel suo libro “Philosophy of Andy Warhol”, del 1975, l’artista scriveva: “Credo davvero negli spazi vuoti, benché io come artista produca un sacco di rifiuti. Lo spazio vuoto è spazio mai sprecato. Spazio sprecato è qualsiasi spazio in cui ci sia dell’arte… quando guardo le cose, vedo sempre lo spazio che occupano.Voglio sempre veder riapparire quello spazio, vederlo tornare com’era, perché è spazio perduto, quando contiene qualcosa.”
Forse, ma è solo un’ipotesi visto che non ci sono ancora studi approfonditi a riguardo data la recente scoperta di queste opere, l’entusiasmo di Warhol nei confronti di questo nuovo Media, il computer, derivava proprio dal fatto che esso dava la possibilità di creare delle opere d’arte senza che queste occupassero uno spazio fisico.
Purtroppo Andy Warhol morì solo due anni dopo la realizzazione di questi primi esperimenti, nel 1987; non sapremo mai, quindi, cosa avrebbe potuto ancora inventare il genio creativo di questo straordinario artista. Rimane però l’immaginazione.
https://www.youtube.com/watch?v=3oqUd8utr14
Serena Bobbo © centoParole Magazine – riproduzione riservata
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