La fotografia è una cosa facile da fare. Non sono fotografo, non sono artista, non sono cinese, non sono pittore, non sono filmmaker, non sono cinematografaro, non so disegnare e la fotografia è un modo semplice che mi consente di esprimermi. Tutto quello che c’è nella fotografia, in me non c’è.
Preferisce il ritratto o il paesaggio?
Non preferisco niente. Lavoro solo sul paesaggio, ma non per questo lo preferisco. La fotografia è un pretesto per esserci. Ed io ci sono, perché faccio la fotografia. Per dieci anni ho fatto la fotografia che parlava di se stessa e poi mi sono accorto che potevo anche fotografare al di là del vetrino smerigliato, al di là della finestra e ho visto il paesaggio.
Mi occupo del paesaggio, ma è un pretesto per esserci dentro, per essere nel mondo.
Dove inizia e dove finisce il paesaggio?
Comincia nel mio paesaggio, da un pretesto, dalla pietra carsica, dall’ombra, dalla mia ombra, che entra nell’inquadratura quando ho il sole dietro la schiena e comincia, dalla fotografia stampata e da dove questa fotografia è stata impressa e cioè sulla pellicola, sul sensore digitale oppure nel mio cervello. Finisce quando, suppongo, finirà il mondo. Con il concetto di entropia tutto si fonde tutto si mischia e la fotografia diventa sfocata fino a raggiungere la quiete dei sensi.
Ho notato che lei lega molto la fotografia alla filosofia, alla scienza, come mai?
Perché sono le cose che danno più piacere. Partiamo dal fatto che quando ho fame mangio e quando ho sete bevo, poi affinando i sensi si va sempre più su: si vanno a vedere le mostre, si possono concepire delle cose molto belle, si possono leggere libri interessanti, e i libri più affascinanti sono quelli più intelligenti, perciò quelli di filosofia e scienze.
Lei che è nato ad Addis Abeba, pensa che la sua cultura possa in qualche modo influire sulla fotografia?
Assolutamente sì. Sono di origine armena; i tempi che ho, il mio modo di vedere, il modo di pensare, sono completamente differenti dall’ottica occidentale. L’avevo già notato da bambino quando era arrivato a Trieste; la differenza tra me e i miei parenti triestini, era enorme, era difficile capirci.
Com’è nata questa passione per la fotografia?
Non è una passione, è una disgrazia! Ho tentato più volte di fare qualcos’altro, ma non ci sono mai riuscito, per cui è una sorta di costrizione.
Quando avevo quindici anni mi hanno regalato una macchina fotografica e da subito ho cominciato a partecipare a dei concorsi vincendo spesso. Ho visto che la cosa mi andava bene, perché fare delle belle fotografie mi era molto facile, poi mi sono ribellato e ho preso una strada diversa; ho iniziato a fare dei discorsi deontologici sulla fotografia stessa e sono andato avanti concettualmente.
La prima volta che è venuto a Trieste che impressione ha avuto di questa città?
Ero molto piccolo, ho portato i miei ricordi. Sicuramente l’immagine quasi eterea delle suore bianche, che mi hanno accompagnato in questa città, mi è rimasto molto impresso. Ho avuto una vita travagliata, con momenti anche negativi, ma non rinuncio a queste sofferenze, anzi esse sono lo stimolo per fare altro. Penso spesso alle vicende dolorose della mia vita; sono sempre rimasto con questo grande negativo su di me, ma faccio tantissime cose con i negativi, come i cieli neri, anche perché il negativo, il nero, per noi orientali, non è così drammatico come per la cultura occidentale. Tra l’altro per i fotografi il negativo è quello che produce molti figli, molte stampe, perciò il negativo è la cosa più importante, in sintesi è la mamma.
Secondo lei la città è cambiata da quando è arrivato qui?
Sì, è cambiata moltissimo, in peggio. Per esempio la maleducazione che c’è adesso non c’era una volta e nemmeno la sporcizia. La globalizzazione a Trieste non è assolutamente arrivata e anche se ci sono stati dei tentativi di apertura verso l’Est, in realtà poi le cose non sono andate come dovevano. Basta andare nei nostri cimiteri e attraverso le tombe si può capire che cos’era Trieste una volta, cioè il multilinguismo.
So che le piace il pittore William Turner – noto per i paesaggi – forse perché le piace il paesaggio e quindi le due cose si uniscono. Come mai è nata la passione per questo artista?
È stata una scoperta. Lo conoscevo attraverso i studi scolastici, ma ho potuto vedere una vasta produzione di Turner alla Tate Gallery di Londra e da quella volta ne ho assorbito l’arte portandola anche nel mio quotidiano, nei gesti di tutti i giorni e perciò il grigiore della città veniva cancellato dalle immagini che mi portavo dentro. Una volta mi è capitato, prima di entrare nel mio studio, di vedere un’opera di Turner davanti all’ingresso e così ho realizzato ciò che avevo immaginato, attraverso la fotografia.
Ha fatto anche mostre fuori dall’Italia?
All’inizio ho fatto più mostre in Inghilterra e in Scozia che in Italia, questo perché avevo una Galleria che mi portava all’estero e poi sono stato contaminato dal paesaggio scozzese, il quale risulta grigio da lontano, invece avvicinandosi, e guardando il particolare, si vedono mille colori; è una cosa nascosta che poi si rivela. Gli scozzesi sono un po’ folli – specialmente quelli sulle isole – e mi hanno contaminato moltissimo. Sono dovuto fuggire, perché una volta che uno si trova in Scozia, non sente più l’esigenza di fare arte, non ha bisogno di fare niente; il paesaggio sovrasta ogni cosa. Si fa arte dove non c’è paesaggio, come a Trieste: nella cava, oppure sul Carso, dove tutto è arido, dove la gente è arida, dove la pietra – come dice il poeta Ungaretti nella poesia “Sono una creatura” – è totalmente disanimata.
Ha conosciuto qualche importante artista triestino?
Ero amico di Miela Reina, insieme facevamo parte del Gruppo “Arte Viva”. Miela mi ha aperto nuovi orizzonti. Lei aveva uno stile tutto suo nel dipingere e in qualche modo mi ha contaminato. Un giorno era venuta al corso di nudo – tenuto da Nino Perizi al Museo Revoltella – al quale partecipavo e il suo modo di disegnare ha colpito tutti; era una forza della natura notevole. Qualche volta abbiamo collaborato assieme – io facevo fotografia e lei pittura – e abbiamo partecipato per due anni al Trigon di Graz, che è una grossa mostra e poi c’era il teatro musicale che facevamo con Carlo de Incontrera; esperienze bellissime!
Nino Perizi è il pittore che mi ha dato l’input per andare avanti, ha scoperto che io avevo delle capacità artistiche. Mi ha fatto dipingere molto: sessanta quadri a olio e trecentocinquanta disegni di nudo. In quel periodo la pittura astratta di Perizi era all’apice, ma io non volevo seguire questo filone e mi sono ribellato, ho trovato un mio stile, che era un nuovo tipo di figurazione; lui da subito ha capito che stavo percorrendo i tempi.
Tante persone apprezzano i suoi lavori …
Non sono mai stato interessato ad esporre le mie opere. Sono gli altri che me lo chiedono e io non so dire di no. Comunque posso dire di aver partecipato alla Biennale, di aver esposto all’estero in posti abbastanza prestigiosi come Londra, New York, Sydney …
Ha vissuto di sola fotografia e nient’altro?
Diciamo che riesco a sopravvivere; se potessi vivere meglio, produrrei molte più cose.
Cosa mi dice di Marina Abramović?
Marina Abramović era venuta a vedere la mia prima grande mostra che ho fatto a Belgrado. Poi l’ho incontrata a Motovun (Montona) e siamo diventati amici. Una volta, con il suo compagno Ulay, è venuta a trovarmi a Trieste e ha dormito a casa mia, poi ci siamo persi di vista e ci siamo contattati qualche anno fa per motivi professionali, ma a causa di disaccordi non ci siamo più né sentiti né rivisti.
Immagino che Marina sia una persona particolare
Sì, molto particolare. Per me è una delle più grosse artiste viventi: è molto determinata, molto pregna di se stessa, ma è giusto che sia così. Un grande artista deve assolutamente credere in se stesso e nella propria arte, che per lui sarà sempre la migliore e Marina riesce anche a trasmetterlo agli altri, che di conseguenza se ne convincono.
Cosa mi dice dei suoi lavori?
Tra i miei lavori fotografici ci sono le foto con le parole, le fotografie legate alla scienza, che io ho chiamato “paesaggio illuminista”, c’è il continuo rimando ad autori: ho copiato alcune opere degli artisti più importanti per poi produrre qualcos’altro e il prodotto che ne è venuto fuori l’ho chiamato “Analoga”; che è l’analogo dell’opera originale. Un esempio di Analoga è la riproduzione che ho fatto di un pezzo di un’opera di Piero Manzoni, che ho trovato su un giornale. Io l’originale non lo vedrò mai, perché è stato venduto all’asta e a me rimane solo l’ingrandimento – di oltre 70×100 – che ho fatto con la retinatura. L’analogo mi serve per dichiarare che la fine dell’arte o la fine di quel paesaggio è evidente.
Che cos’è un“fotografema”? L’ha inventato lei questo termine?
L’ho sentito nominare casualmente da un’insegnante ceca, quando ero a Londra. Ho cercato di contattarla per chiederle delle informazioni sul termine, ma non mi ha mai risposto e non ho trovato questa parola da nessun’altra parte. Per dieci anni ho fatto dei discorsi sul linguaggio fotografico; è stata una lunga ricerca e come nella lingua parlata la più piccola parte di una parola è un fonema, così i “fotografemi” sono, per me, le tante piccole parti di una nuova lingua che si compie nella foto della foto, nella foto del fotografo e nella foto del fotografare. Poi negli anni ’80 sono passato al paesaggio, che ancora oggi rappresento nelle mie opere.
Preferisce il bianco e nero o i colori?
Non ho preferenze. Io butto giù delle idee e posso esprimermi con qualsiasi cosa: con una matita, con la fotografia in bianco e nero o a colori e anche con il video; non sono legato a nessun gallerista che mi obbliga ad esprimermi in un certo modo, faccio esattamente ciò che voglio. Il mio problema è soltanto se ci sono o non ci sono nel mondo. Cartesio aveva detto: “Ego cogito ergo sum”, io invece dico: “Ego sum ergo cogito”, quindi esattamente il contrario. Tutto quello che io faccio è solamente per capire se io esisto o no. Gli animali sono più liberi di noi esseri umani, perché non devono pensare e quindi io che devo farlo penso a me stesso, ma non perché non amo il prossimo, anzi produco delle opere che gli altri possono vedere e se piacciono, sono davvero molto contento. Non impongo la mia arte a nessuno, perché l’arte dev’essere scelta liberamente. L’importante è fare, per esserci, ma ancora più importante è essere qui, adesso, ora, e che ci sia un’energia rivolta verso il futuro, senza però pensare al domani.
Del passato non mi interessa più di tanto e nemmeno del futuro, mi importa molto della potenzialità che ho in questo momento di fare qualcosa che è rivolta verso avanti, non mi preoccupo di cosa succederà domani, come gli altri mi vedranno. Basta che ci sia un vettore di forza nella direzione dell’avanti, tutto qua. E’ un discorso difficile, ma anche molto semplice.
Lei non si definisce né fotografo né artista, allora chi è in realtà?
Non lo so neanch’io, ma intanto che differenza fa? Di solito le etichette le danno gli altri. Ad esempio, l’arte esiste perché uno decide che una cosa è arte. Oggigiorno il mercato decide chi è artista e io non voglio impelagarmi in queste cose, lascio che decidano gli altri.
Non sono artista perché non ho certe caratteristiche che gli altri artisti hanno; non ho studiato arte fino in fondo. Non sono fotografo perché non vivo della fotografia, non faccio il professionista. Non sono cinese perché non faccio carriera, non sono un carrierista. Ecco tutto!
In questo momento ha qualche musica per la mente?
Sto ascoltando Olivier Messiaen, che ha fatto una cosa magnifica e io la sto facendo in fotografia, per questo sto lavorando – da più di un mese – ad un pezzo importante per la mostra, che farò a Messina a luglio. Ascoltando la sua musica mi sono ispirato per fare dei blocchi di fotografie che rispecchino esattamente l’andamento della sua composizione. Farò una sequenza di otto tabelle grandi, come sono i movimenti di questo pezzo. Altre volte in passato avevo indagato sul rapporto tra fotografia e televisione, tra fotografia e architettura, tra fotografia e filosofia e adesso mi sono concentrato sul rapporto tra fotografia e musica; il risultato sarà una visione di fotografia di paesaggio.
Dove sarà la mostra?
La mostra sarà in una torre del ‘500 a nord di Messina, sulla punta della Sicilia, quella che sta di fronte a Scilla e Cariddi. Il forte militare è stato costruito su resti romani ed è uno spazio bellissimo, veramente stupendo.
Mario Sillani Djerrahian di recente è stato Visiting Professor agli stage “Mettiamoci all’Opera“, organizzati dall’associazione culturale Opera Viva, per il progetto “Questa Volta metti in scena…La Memoria”, ideato e curato da Lorena Matic.
Ringrazio Mario Sillani Djerrahian per avermi accolta nel suo meraviglioso studio e per avermi concesso un po’ del suo tempo.
Nadia Pastorcich © centoParole Magazine – riproduzione riservata
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