La salita che da Galbiate ci porta a Consonno è meno ardua di quel che ci avevano prefigurato al bar, dove poco prima abbiamo recuperato le sigarette e bevuto un caffè. Silvia odia le salite, ed è lei che guida. Ma ci arriviamo, con la soddisfazione silenziosa di aver affrontato una piccola paura e di averla vinta, e scendiamo dalla macchina, con una Canon e una Lumix . Poi Consonno ruba subito la scena alla nostra intima conquista.
Ci accoglie la parte terminale di un minareto. Nel suo essere così alieno a queste zone, spiazza la nostra percezione; anche perché la vegetazione sembra fregarsene del suo essere così corpo estraneo alle colline Brianzole, avendo già iniziato a divorarne la base in un viluppo caotico di erbacce ed edera. Così ci accoglie Consonno, la “Las Vegas della Brianza”.
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Cerchiamo sempre di informarci un po’ sui posti che scegliamo per le nostre lente passeggiate fotografiche. Qualcosa, quindi, di Consonno ne sappiamo già.
“Las Vegas” è un po’ pomposo come soprannome per il progetto, forse più che altro sogno, del conte Mario Bagno, costruttore che ha ideato e portato avanti questa bizzarria. “Il paese dei balocchi” lo chiamavano; all’ingresso del paese, ad accogliere i visitatori, campeggiava lo slogan: “A Consonno il cielo è più blu”. In effetti, è molto blu. Dipinto. Un centro commerciale, un albergo di lusso, ristorante, parco giochi … nei progetti erano addirittura previsti campi di calcio e minigolf.
Camminiamo in mezzo alle rovine di quel sogno e scattiamo foto, maledicendo quel sole velato che appiattisce tutte le ombre e taglia i contrasti da noi tanto amati.
A saperla solo in pare la storia potrebbe sembrare quasi un sogno romantico e bislacco. Zumiamo sulla pagoda cinese, storta e pericolante. Annuisco, pensando alla storia completa di questo posto mentre cerco qualche linea interessante, quel po’ di bellezza che le rovine di fronte a noi mi possono offrire. Il sogno del conte Bagno è stato l’incubo dei cittadini di questo paese.
Già… paese. La parola ‘paese’ fa venire in mente automaticamente un borgo più o meno antico; non certo questa accozzaglia di stili architettonici. In effetti, Consonno, prima che Le ruspe ed il cemento del costruttore edile Bagno arrivassero a spianarlo, era proprio un paese. Spiazza la nostra percezione, e d’improvviso non riesco a togliermi dalla testa l’immagine del conte, e ha la faccia di Rod Steiger in “Le mani sulla città”. A leggerle le descrizioni di Consonno così come è oggi lasciano quasi intendere che il borgo antico fosse spopolato quando è stato raso al suolo, distrutto per far spazio a tutta questa pacchianeria impastata di cemento e lustrini. Non era così. Gente ce n’era; poi il conte “Amen” (così lo chiamavano i paesani) ha fatto sfollare tutti, praticamente a forza, schierando le sue ruspe come fosse la sua personale cavalleria da guerra, quella cavalleria pesante.
L’Hotel Plaza, cuore un tempo lussuoso del paese dei balocchi, è sventrato. Entriamo dentro, accompagnati dal crepitio di vetri che si sbriciolano sotto i piedi. Letti sfondati, mobili fatti a pezzi se non trafugati. E graffiti e scritte ovunque. In posti così, abbandonati a sé stessi senza che si sia neanche cercato di tutelare un po’ la loro travagliata storia. Foto su foto a vivisezionare quel sogno visionario, prima corroso e consumato dal tempo e dalla polvere, poi devastato da mani umane.
Mani umane. Ce lo ricordano ancora due uomini sulla mezza età che troviamo li fuori; fuori posto, a vederli, probabilmente perché non hanno una Reflex al collo, sono solo venuti per una visita al cimitero dietro la chiesetta.
“Scusate, possiamo chiedervi un’informazione?”
“Certo”, rispondono tra il diffidente e il perplesso.
“Ci avevano detto che c’era anche un piccolo Luna Park, qui a Consonno. Non è che sapreste dirci in che parte del paese si trovava?”
Siamo affascinati dall’idea del parco giochi fatiscente, abbandonato; non ne abbiamo mai esplorato uno.
“No, no … nessun Luna Park”. Lo dicono praticamente in coro, con la stessa aria un po’ triste. “Un parco giochi si, quello c’era, si.”
“Ah, certo …”. Annuiamo ancora.
Come a voler specificare perché tutto sia andato in rovina, senza che la colpa ricada proprio su loro due, continuano a parlare.
“Per un po’ era rimasto tutto in ordine, anche se abbandonato, e c’erano le cose tutte in piedi, ed era bello lo stesso da visitare.”
Poi assumono un’aria di triste rassegnazione.
“Nel duemilasei c’è stato un Rave Party… son venuti da tutta la Lombardia, e lo han distrutto, Consonno.”
Scuotono la testa all’unisono. Poi con l’aria di chi si fosse dimenticato qualcosa di importante, e dovuto, indicano con un gesto simultaneo, quasi coreografico, un punto alle nostre spalle.
“Li c’era la casa del conte.”
Ci voltiamo. Dietro di noi, una pagoda cinese pericolante, una casetta sghemba e chiusa da un lucchetto, i resti dell’Hotel. Nulla degno della deferenza che quei due dimostrano. A parte, forse, l’ombra del conte.
“Ma voi vivevate qui?”
Il coro parte ancora con un sincronismo invidiabile. “Nono … no … I nostri genitori ci lavoravano …”
Li immagino, i loro genitori, al bar, o al ristorante, o magari laddove ci si occupava di manutenzione. In tutti questi casi stipendiati, non certo lì a godersela.
“E i vecchi abitanti?” chiedo io ingenuamente.
Loro si irrigidiscono. Quasi come se capissero all’istante la direzione che potrebbe prendere la conversazione. Sicuramente come se non avessero alcuna intenzione di entrare in un discorso, in una polemica forse, che hanno già sentito troppe volte.
“Gli abitanti non ci sono più.”
Il sotto testo, limpido e forte, è: “cosa te ne frega a te, eh? Vieni qui convinto di sapere le cose, il prima e il dopo, cosa ha provato e cosa ha fatto la gente. Va… va pure a far foto, che tanto fra dieci minuti di Consonno non te ne fregherà più nulla…”
Il ‘non detto’ risuona forte in quei due, forse tre secondi di assoluto silenzio, in cui ci, e soprattutto mi, guardano dritti. Rigidi. Silvia mi cava fuori dai guai e dal mio imbarazzo.
“Grazie delle informazioni, arrivederci!” dice sorridente.
Loro ricambiano il sorriso con il loro, molto formale, non un filo oltre quel che si deve all’educazione.
“Prego, arrivederci.”
Scendono lungo la discesa che li porta verso Galbiate a passo lento.
D’improvviso Consonno ci appare un po’ più interessante e misterioso, e contemporaneamente meno inquadrabile di quanto immaginavamo fino a poco fa. Gli scatti successivi sono molto più lenti e studiati. Consapevoli forse che non è possibile capire e cogliere completamente una storia in una foto. Possiamo al massimo, e con difficoltà, catturarne gli umori, forse certi echi che si stendono nell’immediato presente. Non di più. Consonno ci risulta alla fine sfuggente, non riusciamo a comprenderlo bene. Forse per questo cediamo alla tentazione di trovarlo meno interessante ed emozionante di altri posti.
Poi, in post produzione, ci ritroviamo tutti e due con un sacco di foto in bianco e nero. Lavoriamo sui contrasti all’inverosimile. Chiari e scuri fanno letteralmente a pugni in ogni foto. Contrasti fra le varie emozioni che strisciano come fantasmi in mezzo alle rovine della “città dei balocchi”. L’unica foto non così contrastata, un po’ più luminosa, è quella del tramonto che vediamo sul lago di Olgiate.
Almeno il conte Bagno, quando ha fatto spianare la cima di una collina per garantire agli ospiti una bella vista, non aveva torto. Da Consonno la vista è davvero bella.
Vincenzo Russo @ centoParole Magazine , riproduzione riservata