“Se tutto è possibile niente è importante, cioè importante è niente, se niente è stato detto, nulla si può dire, cioè si può dire niente.” Paolo Cervi Kervischer 1980
La ripetizione del segno.
Un dio.
La precarietà.
Tutto in un triangolo.
La scoperta di Paolo è avvenuta lentamente attraverso il Dio Precario, un dio composto dal vuoto che rappresenta il tutto. La precarietà.
Mentre mi mostrava i suoi quadri nei nostri incontri, sentivo l’odore delle tele, ne toccavo la consistenza e il messaggio diventava mio, parte della mia ricerca dentro gli scorci del suo percorso artistico. L’odore delle tele era quello della sua casa; ogni stanza per ogni momento: la musica, l’arte, la pittura. Il pianoforte a coda richiamava costantemente la mia attenzione e cercavo sempre di sfiorarlo, per rivivere la mia antica passione per la musica, per sentirne ancora il suono. Nel toccarlo, sentivo la stessa consistenza delle tele. Tutto era arte. Tutto era immediato.
Spostavo lo sgabello da sotto la tastiera e mi sedevo, tenendo saldo in mano il registratore che dal primo giorno mi ha convertita ad “archivio” della vita di Paolo.
Mentre lui mi parlava delle sue mostre, cercando nuove tele, io mi guardavo in giro nel tentativo di scorgere un nuovo dettaglio che mi poteva essere sfuggito in tutti gli incontri precedenti.
Era diventato una sorta di rituale: sedermi, assaporare gli odori, toccare con le mani gli oggetti casualmente appoggiati ovunque, osservare ancora e ancora le pareti, gli scafali, i mille libri e i suoi quadri, appesi dappertutto e altri lasciati a terra, ascoltarlo mentre si spostava tra una sala e l’altra in cerca di un sigaro, di un quadro, di un foglio.
Questo è sempre stato l’inizio delle nostre chiacchierate.
Il Dio Precario l’ho scoperto così, sedendomi un po’ tra lo sgabello del pianoforte – la mia postazione preferita – e il divano rosso, nella sala “da lavoro”, dove al muro era sempre attaccato un pannello gigantesco con sopra le tele per creare una storia nuova.
“Paolo, perché un triangolo?”
“E’ il Dio Precario” mi diceva sorridendo, mentre fumava “ è la proiezione positiva della precarietà”.
Non rispondeva quasi mai direttamente alle mie domande. Arrivava una risposta quasi brutale e improvvisa che mi obbligava a cadere dentro grovigli di riflessioni. Iniziava da un punto lontano per arrivare al nocciolo soltanto dopo qualche ora, e nel mentre mi raccontava una marea di storie interessanti, di pensieri e ragionamenti che non facevano altro che aggiungersi all’archivio, il mio.
“È sempre stato fondamentale, per me, il Dio Precario” riprende “ perché è un rapporto che si crea con il quadro. Lo vedi il segno ripetuto quasi ossessivamente? Il segno è dato con lo stesso ritmo, per creare una relazione, una confidenza amorosa. Ripetere il segno obbliga a trovare una relazione, un PRE, una dimensione dell’essere in quel momento e per farlo dovevo riprodurre le stesse linee, con pochissimi colori come vedi, senza andare per forza a cercare qualcos’altro. Era trovarsi in un Fare. Nessuna previsione, era oltre al voler dire qualcosa. Esisteva solo l’ESSERCI.”
Di nuovo si alzava per mostrarmi altre tele, questa volta quelle delle mostre di Graz e Banja Luka e mentre le cercava, ne spostava altre, tantissime, diverse tra loro: i suoi nudi, gli schizzi, i busti e i ritratti, per arrivare poi al Dio Precario.
Avevamo iniziato ad affrontare il Dio Precario già una settimana prima; senza il contatto con le tele che sono venute poi, Paolo mi aveva introdotta in un mondo a me familiare, quello della precarietà appunto, un tema comune alla maggior parte della mia generazione, dei giovani come me, dei microcosmi che ancora annaspano nel tentativo di sopravvivere ad una precarietà obbligata, non richiesta. Paolo, invece, ci credeva profondamente. La osannava davanti al dramma, ne dava un significato nuovo, rinnovato di fronte al comune senso della parola in sé.
La precarietà non è altro che una preghiera. Deriva da prece che significa “si può pregare”.
Attraverso il suo studio approfondito della storia delle religioni, Paolo era arrivato a creare un suo credo incastrando la precarietà sulle tele e non solo: raccoglieva, in quegli anni, tantissimi pezzetti di carta su cui c’era scritto qualcosa, e li metteva sotto vetro. L’incastrava. Ne bloccava l’essenza e ricomponeva i frammenti di ogni pezzo, che altro non erano che un ennesimo simbolo di precarietà, di temporaneità. Incastrava la precarietà per esaltarla.
Osservavo le sue opere, portandomi le fotografie che scattavo anche a casa per poter continuare a riflettere e ogni tela dichiarava nella sua apparente staticità che la precarietà è l’unica condizione del vivere. Noi stessi siamo precari nel nostro esistere, nel nostro vivere. Il nostro lavoro, le nostre case, i nostri oggetti e anche i nostri affetti. Il nostro stesso divenire, mutare, il nostro essere è il luogo in cui nessuna certezza è possibile. “È l’unica certezza che abbiamo; credo sia giusto darle un significato positivo. Sfruttarla”.
“Guarda” mi dice Paolo, tornado con in mano un catalogo di una mostra fatta a Trieste e mostrandomi con il dito una fotografia: “ Questo è Erisittone. Nel 1998. Conosci il mito?”
Non lo conoscevo.
“Nella mitologia greca, Erisittone era il re di Tessaglia, un personaggio avido e violento, ma non temeva la paura degli dei, tanto che un giorno decide di ingrandire la sua villa e abbatte un intero bosco caro alla dea Demetra, la quale si vendica mandando su di lui una fame insaziabile. Erisittone inizia così a divorare tutto quello che trova, fino ad arrivare a mangiare la sua famiglia, i suoi figli e infine a divorare se stesso. Ecco, questo è il mito che ho riprodotto in questa tela. A quei tempi ho visto in questa storia l’esempio schiacciante della nostra società, un mito che ci rappresenta per eccellenza. Una sorta di Karma.”
E qua il triangolo della certezza, pensavo alla fine, ancora una volta si distrugge.
Il simbolo dell’equilibrio si converte in precarietà, ripetendo all’infinito lo stesso segno, lo stesso percorso, per nascere e morire nello stesso modo, sempre, ininterrottamente. Tutto si distrugge per volatilizzarsi, per ridursi in frammenti che a loro volta si tramuteranno in dettagli.
Non abbiamo nessuna certezza se non la nostra condizione di precarietà, che domina su ognuno infischiandosene della nostra lotta quotidiana per autenticizzare il nostro vivere, per renderlo degno di un ricordo, per immortalarlo nel tempo, sapendo però che il tempo non resta, non ha corpo, non ha suolo. È un tentativo vano di rincorrere un nulla, piuttosto che accettarlo.
Un’idea questa devastante. La perdita di ogni speranza. O almeno così mi sembrava tutte le volte che ne parlavo con qualcuno dopo averne capito il concetto e averlo fatto mio dopo settimane di studio a casa di Paolo.
La gente si spaventava. “Allora nulla ha senso” era la risposta/domanda. “E che senso ha vivere, allora?”. Sorridendo, rispondevo a me stessa che il senso esiste dentro la consapevolezza della propria condizione. Il nulla ha senso nella sua completa accettazione, concentrando la nostra energia su ciò che ogni attimo ci circonda, per vivere senza per forza capire qualcosa che vogliamo che torni sotto forma di ricordo o di riproduzione del momento in sé, perché la precarietà continuerà comunque a persistere positivamente nella sua autenticità. Che lo vogliamo o no.
Francesca Schillaci
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