Ho lavorato e fatto volontariato in “psichiatria”, così come si dice per creare un grande contenitore in cui riunire in una parola sola un mare magnum di modalità di star male, accomunate soprattutto da uno stigma sociale difficile da cancellare. Ma non attingerò minimamente a questa mia (peraltro superficiale) competenza. Mi limiterò ad attrezzarmi delle mie sensazioni per mettere qualche parola in più attorno a delle foto, rimanendo sospeso tra racconto e diario.
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Memoria calpestabile.
Con Silvia condivido il piacere di fare foto. Andarsene in giro con aria svagata finché qualcosa non colpisce. La si inizia a guardare da tutte le angolazioni possibili, cercandone la bellezza che si è percepita e alla fine si scatta.
Una… due… Spesso molto più di tre volte, e poi si prosegue.
Alla ricerca di luoghi abbandonati, di spazi vuoti ed architetture strane capitiamo all’ ex OPP di Mombello, vicino Limbiate, in piena Brianza. Rispetto ad altre strutture abbandonate gli ex manicomi hanno su molti un fascino del tutto particolare, soprattutto per i fotografi. Sono arrivato al punto di credere che l’impatto della parola “manicomio” è talmente forte che potrei piazzarla nella didascalia di una qualsiasi foto di edificio abbandonato, ed ottenere subito un effetto di estrema drammaticità.
Invalid Displayed Gallery
Ci arriviamo in un primo pomeriggio di sole. Silvia ed io ci guardiamo e guardiamo gli edifici abbandonati e transennati. Capiamo subito che il divieto di accesso e le transenne sono una mera formalità, al punto tale che le barriere non sono né da scavalcare e neppure da abbattere. Qualcuno le ha già spostate, pure con un certo riguardo, scostandole esattamente come fosse un uscio da lasciare semiaperto, come a mostrare ospitalità.
Siamo soli. La luce è splendida, entra dall’alto attraverso un cortile interno soffocato da una vegetazione confusa, per poi infilarsi nelle finestre dei corridoi. Subito ci rendiamo conto di alcuni dei motivi per cui parecchi appassionati di fotografia apprezzano questo luogo. L’edificio è cosparso di un caos di carta e mobili estremamente scenografico e la luce entra di lato nei lunghi corridoi, che si distendono offrendo fantastiche infilate allo sguardo. Passano dieci minuti appena e quella illusione di poter far foto in libertà scompare. Arrivano i primi visitatori, a cui poi ne seguiranno altri ed altri ancora e via così … a buon ritmo. Tutti perlopiù armati di macchina fotografica. E qui che notiamo quanto siamo lenti rispetto agli altri. C’è che entra dopo di noi e ne esce quando noi siamo neanche a metà del giro di uno dei due piani.
La cosa ci fa un certo piacere; ci piace pensare di dedicare maggiore attenzione alle piccole cose. Di volerci prendere tutto il tempo possibile per cercare di scoprire dei dettagli speciali. Esercitiamo l’attenzione, ci sottraiamo per un po’ alla fretta di ogni giorno, che ci fa dimenticare come si fa a “guardarsi attorno”.
Pian piano ci facciamo non solamente affascinare dalle linee, o da soggetti a loro modo “belli”, ma iniziamo a lasciarci anche colpire dalle cose. Stanza dopo stanza, corridoio dopo corridoio, ci si apre uno spazio che solo tre tipologie di persone frequentano: fotografi alla ricerca di uno scatto con un po’ più di pathos di un fiorellino, bande di ragazzini in vena di fare i grandi, ovviamente sfasciando cose, e i senza tetto, di cui incrociamo almeno un paio di bivacchi. E ci sono le memorie di questo luogo, la storia fatta a pezzi e abbandonata delle persone che lo hanno vissuto, giacciono a terra calpestate e calpestabili. Un tappeto di documenti, cartelle cliniche, registri, lastre radiografiche, elettrocardiogrammi, o forse elettroencefalogrammi, tappi per provette… il tutto frammischiato a frammenti di vetri sfasciati, specchi, polvere e fango, bottiglie di birra, lattine. E stranamente pochissimi mozziconi di sigaretta, manco la gente si facesse scrupolo di insozzare la sporcizia. Ovunque tappeti, letteralmente tappeti di carta timbrata e protocollata, e calpestata. Comprendiamo quanta carta può riempire d’inchiostro la vita di un essere umano quando entra in una istituzione, e come facilmente la sua storia possa essere considerata qualcosa da sacrificare senza troppi problemi quando bisogna andarsene, facendo il distinguo fra ciò che è indispensabile e ciò che non lo è.
Ed è attorno questa sensazione che ci coglie un secondo testo … la fretta. Sorvolando sulle sedie che stanno esattamente in mezzo a coni di luce molto artistici e stanze in cui scheletri di letto e comodini giacciono, come a comporre un set e a testimoniare che chi fa fotografia, o video, le mani sulle cose le ha messe per creare un set vero e proprio, tutto appare comunque abbandonato con molta fretta. Ed anche con un certo senso di vergogna.
Questo edificio, a occhio ottocentesco, versa in un totale ed incurante abbandono, collocandosi a pieno titolo fra gli spazi che potrebbero avere più di un uso migliore, ma unisce anche nella propria definizione le parole “ex OPP”, che sta poi per “manicomio”, anche se si deve dire a bassa voce.
“Ex OPP”. Di nuovo, automaticamente, al pensarci cinque lettere accrescono esponenzialmente il senso di dramma. E non è un luogo comune, tutt’altro. Questo è un luogo del dramma, uno dei tanti che come umanità siamo riusciti a produrre. Tra tutte le scritte sui muri, alcune di Writers degni di questo nome e altre di ragazzi armati di pennarello e poco gusto, altre coerenti con il luogo altre meno, se non intrise di luoghi comuni; una resta impressa su tutte. “Pain”.
“Pain”. Questa sì che è coerente. Totalmente. Qui il dolore c’era e se si fa un po’ di attenzione lo si respira ancora. La fretta con qui questi spazi sono stati abbandonati fa respirare la vergogna per un passato che, dopo la cosiddetta legge Basaglia, ha costretto una generazione a fare i conti con una storia scomoda e a preferire il chiuder tutto e girarsi dall’altra parte scappando con la velocità con cui si abbandona una casa in fiamme, senza curarsi d’altro che dimenticare il più possibile, sperando che vandali e vegetazione facciano il resto. Su un comodino troviamo in bella vista file di protesi dentarie ancora fissate su degli espositori con tanto di marchio di fabbrica; mi torna in mente che ai “matti” facilmente i denti venivano tolti, spesso tutti, solamente per renderli meno pericolosi ed indifferentemente se fossero mordaci o meno. Che poi spesso di esser mordaci avevano tutto il diritto.
Mi rendo conto che né Silvia né io abbiamo toccato niente.
Ci siamo limitati ad camminare con estrema lentezza fra le cose. E fra le memorie. Poco importa poi se queste memorie sono effettive in quello che vediamo o sono state evocate con un certo senso dello spettacolo da chi, come noi, armato di Reflex voleva costruire uno scenario che fosse evocativo e forte. In qualsiasi modo siano stati disposti comodini, tappeti di EEG, scheletri di letti e sedie, tappi di provetta, hanno impatto perché sono QUI. Altrove non sarebbero la stessa cosa, a testimoniarci con amarezza che davvero ci portiamo dentro tutti un senso di silenzio, o di strappo con l’età dell’oro; quella in cui uno spazio belo, ordinato e pulito, ed inderogabilmente scisso dal resto del mondo ci permetteva di vivere tranquilli, senza pensare che la testa possa un giorno decidere di non rispondere più in alcun modo alle regole del quieto vivere.
Guardo Silvia e sorrido. “Com’era che ci dovevamo stare un’oretta e mezza al massimo?”
Lei mi sorride di rimando, un po’ infreddolita. “Quattro ore, quasi… Ne valeva la pena no?”
“Certo che ne valeva la pena… ogni metro ed ogni minuto.”
Le cingo le spalle e mentre ci incamminiamo fuori le dico. ”A Consonno ci andremo un altro giorno.”
Consonno ha un’altra storia interessante. Ma magari ne parleremo un’altra volta.
Vincenzo Russo © centoParole Magazine – riproduzione riservata