Un viaggio che dura da secoli dentro le danze di due pittori: Henri Matisse e Paolo Cervi Kervischer

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“La danza, nel suo movimento, può rappresentare la vita stessa.”

Questo è il punto da cui è partita la conversazione con Paolo Cervi Kervischer: attraverso lo studio della danza di Henri Matisse, PCK ha ricercato un aggancio con la storia che potesse, in qualche modo, rispecchiare un messaggio sociale che sta alla base della ricerca artistica dell’artista stesso.

Cranach la danza

La danza, in tutte le sue metafore, ha racchiuso negli anni di tutta la storia dell’arte un messaggio simile ma diversamente espresso: si parte dalla danza tradizionale, come quella di Cranach, dove il movimento è legato ai corpi nudi che in cerchio ballano in mezzo alla natura. Da questo si ricava, poi, un richiamo quasi immediato alla danza attorno all’albero della vita, ad una natura che era paradisiaca, dove cielo e terra si fondevano nell’armonia dei colori, del movimento e della linea corporea.

Arriva poi Matisse, ai primi del Novecento, presentando una danza dai colori forti, dalle linee arabesche, da cui nasce un movimento che si traduce in sintesi: i colori, fondamentali nell’opera matissiana, sono soltanto tre contro il gioco di ombre e riflessi di altre danze e di altri pittori. Il verde acceso che richiama la madre terra, il risveglio e la natura stessa, entra in netto contrasto con il blu acceso del cielo, altro elemento fondamentale per esprimere il concetto di natura come evocazione della vita stessa, per completare poi il centro dell’opera con l’ocra rossastro dei cinque corpi danzanti.

la danza di Matisse

Esiste in Matisse e nella sua opera l’idea della danza tradizionale da cui riesce a evolversi e a concretizzarsi il punto finale di svariate interpretazioni della danza stessa dentro i loro percorsi; il simbolo è assoluto: il movimento, i tre colori, la natura dentro ogni parte del quadro. Nessun corpo è riconoscibile anatomicamente, poiché Matisse riduce tutto all’essenza.

Se Matisse, quindi, pone la questione della storia dell’arte ad un punto finale, cosa accade dopo?

Paolo risponde, dicendo: “Quando è risolto il problema della storia, si apre la questione dell’attualità. Questa è la storia. È la storia dell’arte raccontata attraverso l’immagine pura. Il mio dovere, in tutto questo, è stato quello di interrogarmi. Ogni pezzo di arte ci manda un messaggio da interpretare a riguardo della nostra esistenza.”

In tutto questo, il lavoro di PCK è rappresentato dall’esigenza di trovare dei ponti per capire e poi trasmettere l’assoluto e il relativo presenti in questa “questione”: l’assoluto della forma già definita storicamente e il relativo che è l’esperienza stessa. Qui entra in gioco la critica che fa parte del senso del futuro che riguarda la nostra società.

“Questi personaggi vengono presi, trasformati e inseriti in campi di esistenza che alludono a frammenti della nostra esperienza. Ogni parte della danza entra in relazione con diversi aspetti del nostro vivere”, ribadisce Paolo, insistentemente, “da qui nasce la contemporaneità!”.

PCK parte da qui a interrogarsi su questo assoluto che diventa allo stesso tempo un relativo, ovvero nient’altro che l’esperienza che viviamo. Nasce spontanea, quindi, una critica sociologica: dalla danza di Matisse, Cervi non fa altro che introdurne personaggi trasformati in altri campi di esistenza, attraverso momenti della nostra vita. La danza, appunto. L’esserci, in movimento e in relazione con il nostro tempo.

Si parla, dunque, di due danze che Cervi ha creato attraverso l’osservazione di Matisse e altri grandi (Cranach, Rubens, Mondrian, ecc.) insieme ad una successiva riflessione: Per tutto l’oro del mondoe La danza del Messico”.

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La prima opera – presentata alla Lux Gallery di Trieste nel settembre 2013 – lascia trasparire la capacità dell’artista nel riprendere la danza di Matisse e di contestualizzarla in un discorso attuale, ovvero quello del nostro tempo dove la smania dell’oro e di tutte le relative conseguenze, hanno ridotto prima il singolo poi la moltitudine ad un risucchio d’identità.

I corpi delle danzanti da cinque che erano in Matisse, si sono ridotti a tre in Cervi: sono raffigurati come mobili apparizioni, presenze trasparenti e impalpabili da cui diventa impossibile il tentativo di ricavare un dettaglio nella linea dei volti, poiché nessuno dei corpi ne ha uno. Sono tutti somiglianti nei tratti, stretti tra di loro in un cerchio inconsistente che si erige a danza rituale dentro un cielo e una terra che non sono più delineati come quelli della natura, bensì avvolti permanentemente in abisso di oro. Cielo e terra si sono fusi in un unico colore, quello del denaro, quello che riscopriamo in una passeggiata in centro città, dove tra sportelli di negozi falliti, si erigono nuove porte di “compro oro”, ovunque impiantate a sorta di comando o ancor meglio di ultima scelta del circolo delle cose. Un paradosso dentro un altro paradosso, una matrioska che non si svela mai, ma di cui riconosciamo la presenza facendo finta di nulla.

Qui la tradizione si infrange.

L’essenza della vita stessa rappresentata dalla natura è ufficialmente morta. I bisogni o gli obblighi si sono tramutati in forme diverse e a farne carico ne rimangono sempre meno (da cinque a tre corpi), i quali in un movimento circolare di cui si credono padroni, si rivelano soltanto assuefatti dal vortice implacabile dell’oro, di scritte galleggianti di enigmi del tempo, il nostro, da cui nessuno è assolto.

Per tutto l’oro del mondo” da detto popolare si trasforma in titolo di un’opera rivelatrice che traduce in immagine la nostra condizione di anestetizzati dentro grovigli di corpi che si dissolvono nel loro stesso erigersi, in una danza dannata.

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Allo  stesso modo, per quanto non imponente come “Per tutto l’oro del mondo”, “La danza del Messico”, rappresentata nel 2010, dimostra la stessa dimenticanza delle origini attraverso la scelta dello sfondo, in questo caso mescolato tra colori argentati e rossastri, incastrati in quadrati di stampo “urbanistico”, in cui i corpi mantengono sempre la loro trasparenza, soltanto leggermente addensata.

L’opera vuole trasmettere un puro artificio senza alcun richiamo agli elementi della natura, poiché quest’ultima non appartiene più al discorso dell’umano, che velocemente si è disumanizzato di fronte al grigiore della propria condizione. Le scritte sul fondo del quadro persistono tanto quanto in “Per tutto l’oro del mondo”, continuando a trasmettere dubbi, inquietudini, forse sempre gli stessi enigmi di una realtà che ha dissolto la possibilità di ricavare beneficio e concretezza attraverso il movimento della danza.

Crediamo sia questo ciò che può essere accaduto dopo la sintesi di Matisse, e se qualcuno di noi, anche soltanto uno, si dovesse sentire affine o contrariato dal grande lavoro di Paolo Cervi Kervischer, si può considerare “in salvo”, poiché qualunque tipo di sentimento o emozione, positive o negative che siano, lasciano comunque spazio ad una riflessione, la quale non esisterebbe se invece, di fronte ad una decadenza comune, il risultato ultimo fosse la voce dell’imminente indifferenza.

 

Francesca Schillaci
centoParole Magazine © 2014 – riproduzione riservata

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