In questa sede, si sorvolerà sui fatti successivi la morte di Winckelmann inerenti il processo e la sorte di Arcangeli: basti sapere che, dopo uno scrupoloso processo (su cui pesavano le incrociate insistenze di giustizia provenienti dalla corte imperiale di Vienna e dal cardinale Albani – erede della vittima), l’assassino fu sottoposto, secondo le leggi allora vigenti, alla francamente meritata pena della ruota inflittagli il 21 luglio 1768, su un patibolo innalzato dinanzi alla Locanda Grande. E non si insisterà su teorie (vere o quanto meno plausibili – qui poco importa) su cospirazioni internazionali, inerenti la sorte dell’Ordine dei Gesuiti, in cui lo studioso prussiano sarebbe caduto vittima, forse ignara.
“Questa storia dell’arte la dedico all’arte e l’affido al tempo.”
(Cit. J. J. Winckelmann, Storia dell’arte nell’antichità, 1764)
Ciò che è indiscutibile, è il merito di Winckelmann nei confronti dell’arte e della storiografia artistica. Figura di assoluto rilievo del panorama artistico e culturale che vedeva nella riscoperta dell’esempio degli antichi una soluzione per il rinnovamento delle arti e della cultura, lo studioso prussiano mette in atto una concezione teorica e storiografica innovativa che ha permesso, con alcuni decenni di anticipo, la determinazione di un Classicismo sempre più puro e organico, sfociato poi in quello che è passato alla storia col termine di Neoclassicismo. Tali meriti, indiscutibili, non sono però privi di contraddizioni ed errori…
Il soggetto dei suoi interessi e dei suoi studi, Winckelmann lo scoprì già in giovane età: l’esempio degli antichi, greci e romani, nella letteratura, nella lingua e, seppure successivamente, nelle arti; in particolare, individuò nell’Antichità greca l’origine della perfezione (culturale, ma soprattutto artistica), ponendosi così successivamente in polemica col pensiero di Giambattista Piranesi che, in estrema sintesi, vedeva nell’esempio romano l’apice dell’arte dell’Antichità.
Procedendo con ordine, un primo stimolo concreto, anche se non ancora decisivo, verso l’interesse per le arti antiche fu offerto da un seminario tenuto da Johann Schulze (1687-1744) sulle monete greche e latine tenuto presso l’università di Halle (1738). L’allora studente Winckelmann si sentiva oppresso dagli stringenti vincoli del sapere accademico del suo tempo: nei suoi scritti privati, sono frequenti parole critiche nei confronti della metodologia accademica in uso nell’area tedesca, limitata allo studio pedissequo dei testi e vincolata a una conoscenza quasi esclusivamente libresca degli esempi antichi. Si opponeva anche al riconoscimento della validità immutabile della tradizione letteraria dell’antichità verso lo sviluppo della teoria artistica, come affermava ad esempio Alexander Gottlieb Baumgarten (1714-1762), che introdusse l’estetica quale disciplina universitaria ed era autore dei due volumi dell’Estetica (Ästhetica, 1750-1752). Il giovane era invece interessato all’indagine di tutto ciò che i testi non offrivano, e nuovi stimoli furono offerti dallo studio delle materie scientifiche a Jena: la ricerca delle fonti quali origine della verità mosse Winckelmann verso la natura e l’analisi del mondo sensibile, e tale pratica fu poi applicata allo studio della storia dell’arte. Altre esperienze, private e lavorative, contribuirono al perfezionamento di un metodo che Winckelmann poi applicò ai suoi studi sull’arte antica: in primo luogo, il continuo studio sulla letteratura antica (Sofocle, Aristofane, Omero, Platone, Erodoto e Senofonte tra i principali riferimenti), poi la conoscenza delle metodologie applicate a un’opera storiografica (quale quella del conte Bünau, cui contribuì), e infine il confronto diretto con Voltaire e Montesquieu.
La possibilità di ammirare i capolavori artistici e archeologici delle collezioni di Dresda spinsero il nostro verso la sua naturale vocazione. Tramite il direttore della Galleria, il pittore Riedel (1691-1755), potè ammirare i capolavori della collezione elettorale di Federico Augusto III; un altro pittore, Oeser (1717-1799), fu determinante in quanto era propenso ad avvicinare i propri allievi all’esempio degli antichi ( in modo simile a ciò che aveva fatto il suo amico scultore, Georg Raphael Donner), e da ciò derivò la sua affinità e amicizia col Winckelmann. Da queste esperienze tedesche, nacquero i suoi Pensieri sull’imitazione dell’arte greca nella pittura e nella scultura, ove formulò per la prima volta il concetto alla base di tutta la sua teoria storico-artistica: “[…] Per noi l’unica via per diventare grandi e, se possibile, inimitabili, è l’imitazione degli antichi […]”. Ma già in questa fase, lo studioso cadde inconsapevolmente in un errore di fondo che caratterizza tutto il suo pensiero teorico e, conseguentemente, buona parte delle esperienze artistiche neoclassiche che hanno un riferimento col pensiero di Winckelmann: il modello tanto osannato, quello greco antico, che si pensava fosse testimoniato dai reperti antichi presenti nelle collezioni del tempo era, in realtà, giunto materialmente in una parte pressoché determinante tramite le copie di età romana, mentre gli originali greci (molto spesso, come sappiamo oggi, eseguiti in metallo) sono andati perduti. Nonostante ciò, gli esiti cui era giunto Winckelmann sono assolutamente innovativi e i suoi errori giustificati dalle reali possibilità di conoscenza cui poteva affidarsi (soprattutto, non era stato ancora a Roma e nel sud della penisola). L’esaltazione dell’ideale superiorità greca (artistica e culturale), e il giudizio positivo su alcuni esempi artistici contemporanei (a partire dal Rinascimento sino ai suoi giorni), sono anche un mezzo per una feroce critica all’ancora dominante gusto rococò delle corti europee e stimolo alla formulazione di un nuovo gusto e di un relativo stile che mirasse alla definizione di un nuovo ordine equilibrato anche sul piano sociale, in opposizione ai principi di potere e subordinazione che erano intesi quale espressione del vecchio gusto. Questo momento è anche determinante per la rottura con la precedente tradizione della storiografia artistica: già coi Pensieri Winckelmann si pone in antitesi con la lezione vasariana e le successive opere (tutte, in realtà, fraintese), basate sul principio delle singole ‘vite’ degli artisti, a favore di una concezione generale della storia dell’arte poi raffinata nella successiva opera capitale, la Storia dell’arte nell’antichità.
La stagione romana fu feconda di stimoli e opportunità. In primo luogo, il rapporto con Mengs: entrambi ammiravano l’ideale greco, come è evidente nei Pensieri sulla bellezza e sul gusto nella pittura (Gedanken über die Schönheit und über den Geschmack in der Malerei, 1762), in cui il boemo afferma la necessità (e l’autoconvinzione di aver raggiunto) di una sintesi tra l’espressività di Raffaello, la grazia di Correggio e il colore di Tiziano. I giudizi critici applicati dal pittore d’adozione romana, relativi alla distinzione di principi di determinazione stilistica-concettuale e cronologica, rafforzeranno l’impostazione applicata da Winckelmann nei suoi studi e nei suoi scritti. In secondo luogo, Roma era per lo studioso il fulcro dei resti delle opere antiche (seguita poi dalle località del vicino regno di Napoli), in cui studiare le opere nel loro contesto originario o, quanto meno, quello più prossimo a quello reale in cui erano state inserite e poi, a distanza di tempo, riscoperte. La Storia pubblicata nel 1764 rappresenta la summa di tutte le esperienze sino a quel momento raggiunte: la concezione della storia applicata nel suo senso più ampio raggiunge qui la massima espressione, e l’autore stesso è conscio della sua posizione di avanguardia negli studi, basandosi esclusivamente sulle testimonianze disponibili e le riflessioni su di esse (rinunciando a qualsiasi speculazione teorica priva di una base di fondamento, determinato dal principio ‘vieni e vedi’). La proposta di una contestualizzazione e di un impianto teorico generale (cui poi inserire riferimenti ad opere specifiche e riflessioni inerenti l’originalità della creazione antica e aggiunte successive) diventa dottrina, rifiutando qualsiasi speculazione astratta, facendo della storia un sapere che acquisisce una concretezza nuova consona al tempo in cui Winckelmann visse. L’arte e il fare artistico non sono più estranee ai processi evolutivi che caratterizzano un qualsiasi essere vivente (nascita, crescita, declino e morte, combinato al ritmo ternario basato sull’adozione del necessario, la ricerca del bello e l’esecuzione del superfluo – semplificando); l’arte degli antichi era per lui una fusione perfetta e armonica di elementi sensibili e spirituali, parte integrante di un momento storico preciso e irripetibile (e per questo tradotto ai posteri come storia), che dovevano tornare ad essere esempio per gli artisti contemporanei per la creazione di un’arte che non fosse mera imitazione ma ispirata dall’ideale classico per giungere a nuovi vertici di perfezione e utilità.
A questo punto, è necessario esaminare il concreto contributo di Winckelmann verso la definizione neoclassica di Trieste e i riconoscimenti che questa città ha offerto al ‘principe del classicismo’ e padre della moderna Storia dell’Arte. Materialmente e direttamente, i meriti dello studioso verso la città sull’Adriatico sono pressoché nulli: lo studioso risiedette per poco tempo (e per morirvi tragicamente) e quindi non potè determinare col suo esempio il nuovo volto dell’urbanistica triestina; e francamente, come poteva uno studioso di tale levatura, che era cresciuto ed aveva vissuto in contesti culturali e artistici tra i più floridi e movimentati d’Europa (Dresda e Roma, per non parlare dei temporanei soggiorni in altre città del continente), nutrire un qualche interesse per una città che da poco e ancora con poca forza stava uscendo dalle sue miserabili condizioni di marginalità economica ma soprattutto artistica e culturale?
Indirettamente, invece, questa figura contribuì alla definizione e diffusione di un clima culturale e artistico che, a partire dalla seconda metà del Settecento, in parallelo al grande sviluppo economico e sociale (che avrà, come ben noto, l’apice con l’Ottocento e il primo Novecento), determinerà l’ampliamento urbanistico di Trieste (cui si farà cenno tramite alcuni esempi di rilievo) al di là delle antiche mura romano-medievali (in gran parte distrutte o alterate architettonicamente). Ciò che è noto come Neoclassicismo, ovverosia un complesso sistema di cultura e gusto volto alla ricerca di una nuova razionalità e un nuovo ideale di bellezza basato innanzitutto sull’esempio dell’arte antica greca e romana, sarà infatti lo stile di alcune delle architetture che costituiscono la nuova forma della città, terzo porto imperiale dei domini asburgo-lorenesi (dopo, per apparentemente paradosso, Vienna e Budapest – e primo porto, commerciale, sul mare). Le grandi ricchezze dei mercanti presenti in città si traducono quindi in architetture pubbliche e private sempre più grandi e maestose, consone al nuovo rango che Trieste assume sul panorama continentale, decretando la tendenza a un’architettura (e il conseguente aspetto urbano) di matrice imperiale nonostante le piccole dimensioni mantenute dalla città. Ma che legame vi è tra l’architettura neoclassica triestina (ed europea, in generale) e la figura umana e culturale di Winckelmann? Di fatto, al momento della morte del prussiano la cultura classicista europea conviveva ancora con gli ultimi spasimi del gusto rococò, tanto amato dalle corti dell’Ancien Régime, ma grazie alle costanti ricerche e agli scavi archeologici che avevano luogo a Roma, nel sud della penisola (alcune delle quali dovute allo stesso Winckelmann) e in altre aree della stessa, modificarono gradatamente il gusto della committenza e, in parallelo, si associò ai fermenti illuministici che stanno interessando l’Europa intera. Di fatto, la raffinazione degli ideali classicisti grazie agli sviluppi culturali e sociali europei e le scoperte (nuove, o le riscoperte) archeologiche garantirono la nascita di un gusto e di uno stile che assunse valore di preminenza già durante gli ultimi lustri dell’epoca dei regni assolutisti per diventare autentico dogma (con gli ovvii eccessi accademici) sino ai primi decenni dell’Ottocento, per poi convivere assieme al nuovo clima del Romanticismo e decadere solo verso le ultime decadi dell’Ottocento. E Trieste, come pochi centri d’Europa, può vantare un’identità nuova e su vasta scala proprio grazie all’adozione dell’arte neoclassica (in particolare, l’architettura, grazie alla grande evidenza che essa ha nella nostra vita quotidiana). La grande prosperità economica, determinata dall’apertura della città ai commerci, si accompagnò a uno sviluppo sociale e demografico inedito sino ad allora, con la conseguente espansione dell’area urbana oltre i confini della città antica e medievale (a iniziare dal cosiddetto ‘borgo teresiano’, seguito da quello ‘giuseppino’ e ‘franceschino’). I nuovi ricchi e la più aggiornata classe aristocratica locale, nel costruire i nuovi palazzi dove un tempo vi erano le saline, trovarono il linguaggio più adatto nel nuovo e aggiornato stile neoclassico: tale processo non fu tuttavia immediato e, soprattutto, opera esclusiva di artisti di grande levatura (cui si devono quasi esclusivamente i palazzi ottocenteschi). Tra il primi edifici di rilievo, si ricorda Palazzo Plenario-Pitteri (sito in piazza dell’Unità d’Italia 3), edificato da Ulderico Moro nel 1780, ove reminescenze del tardobarocco viennese si sposano con elementi neoclassici in una facciata tripartita; la parte centrale, aggettante, si caratterizza per sei paraste ioniche erette sullo stilobate in bugnato liscio con andamento orizzontale che caratterizza tutta la parte inferiore dell’immobile. Maggior rigore caratterizza invece il Palazzo della Borsa Vecchia (sull’omonima piazza, al civico 14): edificato a partire dal 1802 da Antonio Mollari e inaugurato nel 1806, sviluppa con ingegno la pianta trapezoidale un tempo affacciata sull’interrato canale della Portizza; la facciata è strutturata sugli esempi degli antichi templi, con un pronao con colonnato gigante dorico che regge una trabeazione tipicamente dorica su cui poggia il timpano con l’orologio affiancato da due figure alate; interventi decorativi di rilievo sono le statue esterne affidate a Bartolomeo Ferrari, Domenico Banti e Antonio Bosa, mentre a Giuseppe Bernardino Bison si deve la decorazione ad affresco degli interni. A poca distanza sorge il Teatro Verdi, edificato a partire dal 1801 da Giannantonio Selva e poi da Matteo Pertsch: la facciata si caratterizza per un portico fortemente aggettante, sopra il quale sorge un’ampia terrazza, seguita dalla mole del teatro tripartita e ornata da paraste e semicolonne (nella parte centrale) ioniche; l’ornato del palazzo è costituito dal bugnato liscio della parte inferiore in cui si aprono alcuni accessi e le nicchie che ospitano alcune statue del Bosa e del Ferrari, autore anche dei rilievi scultorei e delle statue a coronamento della balaustra. Sempre a Pertsch si deve uno dei principali monumenti cittadini, Palazzo Carciotti (sito tra Riva III novembre e il Canal Grande), eretto entro il 1805: questo palazzo, uno degli edifici più grandi e belli di Trieste (purtroppo, in stato di forte degrado esterno e interno…), presenta una facciata monumentale volta verso il mare caratterizzata da un colonnato gigante ionico che incornicia le porte-finestre e sorregge una trabeazione ornata da un fregio d’acanto su cui si innalzano sei statue di divinità, sormontate dalla mole della retrostante cupola emisferica su tamburo, sormontata dall’aquila borbonica. Particolarità di quest’opera architettonica è la funzionalità insita nelle strutture interne modulari e adattabili a molteplici finalità, mentre le parti di maggior rilievo monumentale si caratterizzano per la ricchezza decorativa delle soluzioni offerte dalle sculture del Bosa e dai dipinti di Bison. Altro esemplare di rilievo dell’architettura neoclassica è la Chiesa di Sant’Antonio Nuovo (affacciata sull’omonima piazza): edificata tra il 1825 e il 1849 su disegno di Pietro Nobile, presenta una facciata con pronao retto da sei colonne ioniche che sorreggono il timpano privo di decorazione, mentre sul retrostante attico sono poste sei statue di Santi opera di Francesco Bosa, mentre le pareti laterali e la facciata posteriore (ove sorgono i campanili gemelli) si presentano semplici; l’interno, avente il fulcro nella cupola, è strutturato sul ritmo degli archi, delle volte a botte e delle crociere. Ultimo riferimento va fatto per una delle architetture più interessanti per le soluzioni adottate per edificare il palazzo su un terreno irregolare per forma e conformazione: la Rotonda Pancera (1806, via Felice Venezian 27) di Matteo Pertsch, in cui l’architetto sviluppa l’angolo acuto del lotto come la facciata principale del palazzo, dandole la forma di una sezione di un tempio circolare retto da colonne ioniche giganti addossate al muro, che inquadrano rilievi marmorei e le statue di Marte e Minerva, e che sorreggono una cornice aggettante decorata a oculi; anche gli interni storici sono di grande interesse, con affreschi attribuiti a Giuseppe Gatteri.
Si veda, infine, ciò che la città fece effettivamente per ricordare la figura dello studioso nel suo tessuto urbano e in quello culturale. Effettivamente, la città non concesse grandi onori urbanistici alla figura dello studioso prussiano ivi assassinato: una piccola scalinata a ridosso del Castello sul colle di San Giusto, probabilmente sconosciuta ai più… E, molto probabilmente, la sua memoria sarebbe stata pragmaticamente ridimensionata pur di cancellare la grave onta di essere stata teatro di un tale delitto se non fosse stato per il coraggio di un nobile locale, il conte Domenico Rossetti de Scander (1774-1842), figura di spicco del panorama culturale triestino dell’epoca (si deve a lui la nascita dell’attuale Museo Petrarchesco Piccolomineo, di pertinenza della Biblioteca Civica e dei Civici Musei di Trieste). In relazione alla figura di Johann Joachim Winckelmann, Rossetti fu l’autore di una cronaca che ripercorre, tramite la consultazione diretta degli atti giudiziari e di altri documenti coevi, l’ultima settimana di vita dello studioso prussiano a Trieste (tradotta anche in tedesco e riferimento indiscutibile per chi volesse ricostruire la storia); a lui si devono anche gli sforzi che portarono alla realizzazione del famoso Cenotafio, oggi conservato presso il Civico Museo di Storia e Arte di via della Cattedrale (anche se, nelle intenzioni originali del Rossetti, doveva essere posto nella Cattedrale). Il volume del 1823, Il Sepolcro di Winckelmann in Trieste, è di fatto un manifesto in cui spiega i motivi che lo spinsero a commissionare un cenotafio (dato che le spoglie mortali, sepolte anonimamente in una fossa comune sul colle di san Giusto, erano irrintracciabili) in memoria dei suoi meriti e della riconoscenza che i triestini gli dovevano. Ricorda l’iniziale perplessità, dato che già all’epoca giravano pettegolezzi inerenti la presunta omosessualità dello studioso, oltre ai dubbi inerenti le possibilità di rintracciare la necessaria somma di denaro per la realizzazione (dopo gli anni bui delle occupazioni napoleoniche), ma ciò non impedì a Rossetti di portare avanti il progetto. Nel 1808, prese i primi accordi con lo scultore veneto Antonio Bosa (1780-1845), allievo di Antonio Canova (che corresse il disegno del monumento) nonché amico del committente e dell’architetto Matteo Pertsch, per la realizzazione del monumento in marmo di Carrara che decreterà la sua fortuna in città. Dato che i nuovi inviti ai suoi concittadini non ebbero grande seguito (8 giugno 1818), Rossetti estese l’invito per la ricerca di cofinanziatori oltre i confini cittadini, in particolare ai conoscitori d’arte dell’area italiana e di quella tedesca, ottenendo purtroppo scarsi risultati; nel frattempo i lavori del Bosa erano, nel 1818, quasi giunti a compimento. Vi erano però altre difficoltà, inerenti la collocazione del monumento e le necessarie autorizzazioni; dato che nessuna autorità locale contribuì sia economicamente che burocraticamente al progetto, e Vienna contribuì con soli 500 fiorini (poco rispetto le necessarie somme da mettere in gioco), Rossetti pagò di tasca propria il monumento e lo inaugurò, il 1 marzo 1833, presso la sede della Società della Minerva (da lui fondata nel 1810) senza invitare alcuna autorità locale. L’opera fu poi posta presso l’Orto Lapidario, ex area cimiteriale, ponendosi come esempio per le autorità cittadine per i successivi sviluppi delle aree cimiteriali triestine, in cui i monumenti si inseriscono in un contesto curato di piante adatte al tipo di suolo locale, suggerendo quindi una nuova tipologia di area cimiteriale.
Il Cenotafio è, di fatto, uno dei migliori esempi di scultura neoclassica presenti in città. Su uno zoccolo (o basamento) di considerevole altezza, poggia un’urna dalle classiche e austere forme squadrate retta da zampe leonine, su cui giace un genio piangente, l’Agatodemone (ovverosia il genio buono che custodisce le ceneri del defunto). Questa figura, nobile e raccolta, è raffigurata nell’atto di piangere discretamente e malinconicamente sul ritratto di Winckelmann (rilievo bronzeo inserito in un’ovale contornato dal serpente emblema dell’eternità). La posa, con le ali piegate, la testa china retta dal braccio sinistro, si rifà alla tradizionale iconografia della Malinconia; il braccio destro, invece, poggia sull’ovale recante il ritratto dello studioso, dietro il quale si trova una fiaccola rivolta verso il basso e il pugnale, emblema dell’odioso delitto. Sull’urna sottostante, è incisa l’epigrafe in latino compilata dal dottore Giovanni Labus: “IOANNI. WINCKELMANN. DOMO. STENDELIA. PRAEF. MONUMENTIS. ROMAE. CURANDIS. EGERUNDIS. MAXIMA. POLITIORIS. HUMANITATIS. LAUDE. FLORENTI. ADITA. VINDOBONA. SEDEM. HONORIS. SUI. REPETENS. MANU. ADVENAE. PRODITORIS. HAC. IN. URBE. PEREMPTUS. EST. VI. EID. IUN. AN. M. DCC. LXVIII. AGENS. AN. L. M. V. D. XXX. TERGESTINI. AERE. CONLATO. FAC. CUR. AN. M. DCC. XXXII. EXPLANATORI. PRAESTANTISSIMO. ANTIQUITATIS”. Sullo zoccolo, che nei suoi elementi strutturali ricorda un’antica ara, è presente sulla fronte un bassorilievo con una scena allegorica: a destra, è rappresentato Winckelmann nelle vesti di filosofo dell’Antichità, mentre regge con la mano sinistra una fiaccola e con la destra indica una sfinge (allusione alle antichità egizie), un vaso (antichità etrusche), un busto di Omero (antichità greche) e alcune medaglie (antichità romane); seguono due gruppi di figure, il primo costituito dalle tre arti (Pittura, Scultura e Architettura), il secondo dalla Storia (raffigurata con l’indice ammonitore), la Critica (col volto parzialmente coperto da un velo), la Filosofia (poggiante la mano sulla figura in primo piano), e una figura seduta impegnata a scrivere su un volume a rappresentare l’Archeologia.
Come succede spesso, dopo la sua realizzazione, questo monumento non fu esente da critiche: alcuni lamentarono l’esecuzione affidata al Bosa piuttosto che al Canova stesso o a Dorwaltzen, altri criticarono l’esecuzione nello stile “moderno”, mentre altri si lagnarono per lo spreco economico generato dall’erezione di un monumento dedicato all’archeologo in una città dedita con fervore agli sviluppi economici e commerciali (critica quest’ultima rispedita al mittende, mettendo in luce che tale dedica aveva anche lo scopo, e il merito, di inserire nuovamente la città nel dinamico circuito dello sviluppo e dello studio delle arti dopo i secoli di oblio in tale ambito e la perdita considerevole delle preziose testimonianze antiche tergestine, oltre ad essere una prova tangibile della volontà di riscatto della città verso il ‘crimine’ di essere stata teatro di un tale delitto)…
Il progetti rossettiano aveva in realtà una portata più ampia. Se in un primo momento questo monumento doveva essere posto nella Cattedrale, il progetto immediatamente successivo prevedeva la realizzazione di un Pantheon (1822) in cui collocare il Cenotafio e da erigere dietro la chiesetta di san Michele, a fianco di San Giusto; bocciata dalle autorità anche questa proposta, Rossetti ne elaborò una seconda (1825), simile, in cui il monumento sarebbe stato circondato dalle antiche lapidi e dalle vestigia dei fasti romani tergestini: si progettò quindi un monumento alle antiche memorie cittadine, di cui lo studioso sarebbe stato nume protettore. Di questo progetto ci resta uno studio grafico, attribuito a Francesco Bruyn, datato 4 giugno 1825: l’edificio doveva essere una rotonda coperta da una cupola con apertura (simile a quella del Pantheon romano, evidente modello per l’opera in esame) chiusa da una vetrata di cristallo e rame e con un accesso ornato da colonne doriche sormontate dal tipico fregio costituito da quattro metope e cinque triglifi; lo spazio interno, dominato dal Cenotafio, avrebbe ospitato lungo la mensola architettonica le antichità allora custodite senza alcun riguardo presso la Biblioteca, mentre i sotterranei avrebbero ospitato le ossa provenienti dai due ossari di San Giusto. Questo progetto, che avrebbe costituito il primo nucleo dei Musei cittadini, non trovò le necessarie autorizzazioni delle autorità cittadine e, anche per motivi economici, fu abbandonato quasi subito; Rossetti volse allora la sua attenzione al cimitero inferiore del colle, all’epoca dismesso. Il 20 febbraio 1829 inviò al direttore dell’Imperial Regio Gabinetto Numismatico e di Antichità di Vienna, Anton von Steinbüchel, una pianta del cimitero indicando presso il muro di sostegno al sagrato della Cattedrale il luogo dove sarebbe stata edificata la nicchia ove porre il monumento (soluzione poi scartata per problematiche statiche delle fondamenta della costruzione), col progetto per la realizzazione del “Museum Aquilejense”. Tale progetto trovò il favore del direttore e della Cancelleria di Corte, avviando i lavori di progettazione di un museo che doveva ospitare tutte le antichità del Litorale (allora comprendente Trieste, Aquileia e tutta la storica regione della Venezia Giulia – oggi divisa tra Italia, Slovenia e Croazia); Rossetti, a questo punto, espresse la sua contrarietà, data la mole dei materiali che sarebbero stati concentrati, alla realizzazione di un tale museo avanzando la necessità di conservarle nei loro luoghi (fatta eccezione per quelle a rischio di furti e manomissioni, che dovevano essere trasferite a Trieste), avanzando allora la proposta di creare un museo ad Aquileia (mantenendo comunque valida la clausola della sicurezza). A questo punto, il Rossetti fece progettare un nicchione in cui porre il monumento eseguito dal Bosa, aperto sul giardino, che avrebbe ospitato anche alcuni dei reperti antichi raccolti: anche tale vicenda non fu priva di ostacoli, con la concessione dell’area per la sua erezione avvenuta nel 1831. Appena il giorno 1 marzo 1833, fu celebrata l’inaugurazione del monumento e del Lapidario Tergestino. Nel 1934, il nicchione fu abbattuto e il Cenotafio trovò ricovero presso il tempietto-gliptoteca che chiude l’area dell’Orto Lapidario: tale struttura fu edificato nel 1874 per proteggere dalle intemperie i materiali più delicati e pregiati delle raccolte triestine. Questa fabbrica (attuale sede del monumento) si caratterizza per una struttura asimmetrica costituita da due vani, rimaneggiati negli anni Novanta del Novecento: tramite una piccola scalinata centrale, si accede al pronao aperto sul giardino, retto da due colonne corinzie (reggenti il classico timpano privo di decorazioni), e caratterizzato da due nicchie semicircolari sui lati brevi, dalla porta si accede alla cella principale, rimaneggiata pesantemente, con la ricostruzione accentrata del nicchione ove era custodita l’opera del Bosa (senza la decorazione a lacunari dell’originario). Qui trovano attualmente posto alcune lapidi commemorative, alcuni dei più significativi reperti della collezione di antichità del Civico Museo di Storia e Arte, il busto marmoreo del Ritratto di Domenico Rossetti (1843) opera di Donato Barcaglia commissionata dalla Società della Minerva, e alcune teche in cui sono custodite le riproduzioni dei documenti originali del processo per la morte dello studioso prussiano.
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